Dante, i tedeschi non lo infangano: storia (e bugie) di un blitz inventato
L’esempio di Bonvesin della Riva
Anche Bonvesin parla del fuoco che per lui tormenta gli avari, della puzza che ammorba i disonesti, del ghiaccio che punisce gli improbi, dei vermi che mangiano i profittatori, e anche descrive terribili demoni che tormentano i dannati e dannati che urlano, piangono, mordono, percuotono! In genere, è noto a tutti, si cita Bonvesin della Riva proprio per dire che se il tema è lo stesso, ben altra è la resa dantesca. Legioni di artisti del resto hanno rappresentato la Pietà prima di Michelangelo… L’idea di cultura, di sapere, di conoscenza che dobbiamo portare avanti non è la gara tra chi ha il poeta più grande di tutti. Non è una gara! E certe grandezze non sono neppure misurabili.
Non è una gara
Immaginare una gara tra Dante, Shakespeare, Goethe e Cervantes, coinciderebbe con la morte della letteratura. L’altra colpa di Arno è stata di ammettere che leggere Dante è maledettamente difficile, a dispetto di quanto ne dica Eliot! Difficile a scuola, per un bambino, dice Arno, studiare Dante con quei lunghi apparati di note che lo rendono ostico. Nulla con cui non concorderebbero molti studenti italiani. Leggere Shakespeare, dice Arno, è facile e piacevole, ma Dante necessita di una chiave speciale. Questo è il problema della cultura medievale, è una cultura complessa, ricca di costruzioni simboliche, decisa a viaggiare sempre e solo sul polisenso. E, sia chiaro, non sto accusando Dante di essere uno scrittore pesante e complesso, è lui stesso che nel Convivio avverte il lettore di non prenderlo mai alla lettera, di interpretare sempre la sua pagina secondo i quattro sensi della Scrittura, storico, allegorico, morale, ed escatologico.
Il paragone con Shakespeare
Arno dice (inseguendo i sentieri di Eliot) che la Commedia di Dante, così fitta di costruzioni teologiche e di tensioni morali, è permeata dal giudizio, così diversa, invece, è l’opera del laico Shakespeare, che si tiene a distanza dalle colpe dei suoi personaggi. Arno Widman è stato allievo di Theodor Adorno, ha cofondato la TAZ, lo storico giornale della sinistra di Berlino ed è stato responsabile della sezione culturale di uno dei settimanali più colti d’Europa, lo Die Zeit nonché responsabile della pagina delle opinioni della Berliner Zeitung. Non solo, Widmann ha anche tradotto Umberto Eco, Curzio Malaparte — di cui è forse il maggior conoscitore in Germania — e Victor Serge. Si poteva mai pensare che un intellettuale con il suo profilo potesse dire quelle fesserie su Dante, e in quel modo? No, che non si poteva, ma la questione qui non è Dante, la questione è che di Dante si voleva fare un uso strumentale.
Il polverone
Attaccare Widmann, o difendere Dante da Widmann, è servito come al solito a distrarre, a gettare l’osso per aizzare la zuffa, e lasciare poi che il polverone offrisse un vantaggio alla politica. In queste ore avrebbero dovuto riaprire i teatri, i cinema, i circoli di lettura. Il ministro Franceschini lo aveva promesso, a qualunque costo. Invece non è andata così. L’agonia in cui librerie, teatri, editori, vivono dovrebbe essere l’elemento centrale del dibattito politico come dovrebbe esserlo il fatto che l’Italia è terz’ultima in Europa per investimenti statali in attività culturali. Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono subito mobilitati contro l’attacco lanzichenecco di Arno! Ma è stato solo un modo per fare ammuina, per suonare il ritornello trito della patria più bella e dello scrittore più grande, per coprire il fatto che non hanno né progetti né visione per ritirare su la cultura italiana rimasta senza fondi, senza investimenti, senza piani.
Il poeta in esilio
Dante è stato un esule, infangato e diffamato per tutta la vita. Il 27 gennaio del 1302, un tribunale uscito da un governo golpista lo ha accusato di concussione e peculato, di essersi arricchito illecitamente durante i mesi della sua attività politica, come priore e come consigliere dei Cento. Mesi quelli, che invece Dante spese per combattere la corruzione e nel bloccare sistematicamente tutti i finanziamenti al corrottissimo e rapace Bonifacio VIII. Per i primi tredici anni del suo esilio, a Firenze, si è fatto di tutto per impedirgli di rientrare, escludendolo sistematicamente da ogni amnistia concesse ai fuoriusciti, perché lui — diceva il governo di Firenze — non meritava neppure la «grazia», perché peggio di chiunque altro aveva «tradito la patria fiorentina». Quando, nel 1315, fu compreso, infine, nella lista dei graziandi, non si vollero però cancellare le accuse mossegli. Dante allora non rientrò, scrisse ad un amico che: se questo era il prezzo, se il prezzo era la menzogna, allora preferiva morire nella verità dell’esilio. Difendere la verità è un buon modo per rendere omaggio a Dante. Trasformarlo, invece, in un’icona da mettere sul cappellino, così dagli spalti possiamo fare «Buuu» sugli altri giocatori è proprio il modo per riportarlo dentro a quel tipo di politica che fino all’ultimo cercò di non far vincere a Firenze.
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