Il premier forte coi piedi d’argilla

MASSIMILIANO PANARARI

A pensarci un attimo, è un po’ come inserire un motore Ferrari su un’utilitaria. Fuor di metafora, ci troviamo in presenza di un nuovo possibile capitolo dell’eccezione e dell’anomalia italiana.

Proprio quando il Covid-19 ha svelato il deperimento di sistemi-Paese ben più solidi del nostro. E quando, per contro, l’Italia si trova a essere guidata da una delle personalità più autorevoli del proscenio della governance globale. Con il rischio, pertanto, che Mario Draghi risulti un leader “sproporzionato” rispetto a una Nazione che appare da tanti punti di vista in letargo e rinunciataria, largamente adattatasi all’idea del suo declino. Ovvero, il paradosso inquietante che il premier considerato come l’italiano più prestigioso in circolazione non possa contare in maniera compatta e convinta sul proprio sistema-Paese. Un po’ come se rimanessero soltanto dei nani sulle spalle del gigante, o sulle ali del Draghi (beninteso, sempre di espressioni figurate si tratta, e non di immagini politicamente scorrette). Ed è una sensazione raggelante perché riferita a una Nazione che, pur zavorrata da vari deficit e difetti, ha potuto sempre contare su energie e risorse straordinarie in seno alla società civile e al mondo economico.

Nel corso di questi giorni alcune voci (come Massimo Giannini e Giampiero Massolo su queste colonne e Stefano Folli su Repubblica) hanno evidenziato un ritorno da protagonista dell’Italia sul palcoscenico continentale. Determinato, per l’appunto, dal fatto che da alcune settimane siede a Palazzo Chigi l’ex presidente della Bce. Una finestra di opportunità – come lo è anche, sul piano interno, la (seppur tesa) fase di decantazione e tregua tra i partiti – che potrebbe consentire all’Italia, fra la transizione tedesca del post-Merkel e i problemi francesi, di rientrare pienamente nel gruppo di testa dell’Ue. E di radicarsi saldamente, e a pari titolo, nel gruppo di testa e nella leadership maggiormente collegiale di un processo di integrazione destinato a correre sempre più velocemente per effetto delle implicazioni politico-economiche della pandemia. Col pericolo assai concreto, tuttavia, che l’«intendenza non seguirà». Tra crescita drammatica della povertà, un’opinione pubblica smarrita e disorientata, l’attesa messianica (e deresponsabilizzante) nei confronti di un salvatore, una forma diffusa di rassegnazione, la scarsa resilienza e le ferite laceranti di svariati settori produttivi e l’infragilimento del capitale sociale è come se l’Italia avesse interiorizzato definitivamente il declino, sotto gli effetti della «glaciazione» pandemica come pure di un discorso pubblico prevalente decisamente inadeguato (e che ha finito, de facto, per incoraggiare l’aspettativa assistenzialistica e il fatalismo).

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