Camogli e quelle 100 bare inghiottite dal mare: “Così i nostri familiari sono morti due volte”
lodovico poletto
DALL’INVIATO A CAMOGLI (GENOVA). «Oggi no, non dipingo niente. Oggi penso. Al mio bambino che è lì in quel cimitero. La sua tomba è proprio sul confine: pochi metri più in là e c’è la montagna che è franata. C’è il mare e il vuoto. E io penso».
Ha un sorriso tirato dietro la mascherina e la pelle già bruciata dal sole, Maria Teresa, la pittrice che ha lo studio proprio sul porto. A quattro passi da dove i sommozzatori del Consubin, fino a ieri l’altro, portavano i sacchi coi resti trovati in mare. E i carri funebri li caricavano e andavano via, con la gente che guardava e si faceva il segno della croce. E piangeva: perché è uno strazio dell’anima veder arrivare dal mare questi resti di uomini e donne inghiottiti dalle onde in un pomeriggio di febbraio, il 22, un lunedì, quando il cimitero di Camogli è crollato. Portato via da una frana di cui tutti parlavano da anni, scivolato nell’acqua per colpa di una montagna che si sfaldava da anni, e che avevano provato a tenere insieme con delle reti d’acciaio. Ma la natura non si ferma con quattro cavi. La roccia, già fragile e spaccata è venuta giù di schianto, trascinando in mare una fetta di montagna, oltre che un pezzo di cimitero. E la memoria di almeno 300 persone.
Chi ha visto racconta che il mare, quel pomeriggio, è rimasto colorato di giallo e marrone per ore. E spiega che il cimitero che s’affaccia sul golfo era un luogo di pace, il miglior posto che si possa immaginare come ultima dimora per chi di mare è campato, per chi ha navigato tutta la vita, e per chi da sempre diceva «seppellitemi lì, che possa guardare quei tramonti che mi hanno fatto innamorare». Trecento corpi s’è portato via il mare – si stima – e 350 sono i reperti recuperati. Pezzi di feretri e ossa. Qualche bara ancora intera, o con lo zinco ancora intero. Ma c’è chi stima che i corpi di cui, forse mai, si avranno tracce siano ancora un centinaio. E Camogli piange il suo passato. Si dispera. Polemizza. Accusa. In tanti pregano. E ogni persona che incontri è un viaggio nel dolore di chi non ha più un posto dove portare un fiore a un pezzo della sua storia. Oppure ti spiega con la semplicità di Marco Galassi, che lo dice chiudendo gli occhi come per afferrare un ricordo: «Mia mamma e morta due volte. Se n’era andata in fretta, tanti anni fa. Io andavo al cimitero a posare un fiore, a dire una preghiera quando passavo lì davanti. Come si fa con i vivi: entri dici ciao e te ne vai. Ecco, anche ora mia mamma se n’è andata via in un attimo. Di lei non mi resta più nulla». Lo dice alle sette di sera sulla passeggiata di questo borgo che è uno dei gioielli del Levante ligure. Un luogo di turisti e di pace. Con i pescatori che si ritrovano a parlare sul molo, dopo aver ormeggiato le barche. Come vedi nei film. Solo tanto che questo non è fiction. Questo è un paese che da un giorno all’altro si è ritrovato a piangere parte della sua storia dispersa in mare. Storie di gente normale e di marinai. Madri e padri arrivati qui con i figli ancora piccoli. Immigrati. E poi ancora commessi, casalinghe, agricoltori, pescatori, palombari. Capitani di nave. Camogli, il momento del crollo del cimitero
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