La fine della solidarietà



Qui nessuno vuole negare che il «nero» sia un elemento funesto della nostra economia, né che tra gli ipergarantiti esista un manipolo di fancazzisti che se ne approfitta. Ma etichettare le intere comunità degli autonomi e degli statali con il marchio dei loro esponenti peggiori è esattamente l’opposto di quella che un tempo si sarebbe chiamata «coscienza di popolo», se non di classe. Chi è in ansia per il futuro dei suoi figli dovrebbe solidarizzare istintivamente con chi quell’ansia la sta già vivendo nel presente. Non sbertucciarlo, insultarlo o addirittura mettere in dubbio la verità dei suoi sentimenti. Nulla può mandare ai pazzi chi soffre come il non essere creduto.

Ho guardato e riguardato la foto di Ermes, quel ristoratore modenese che a cinquant’anni suonati si è presentato a Montecitorio con in testa un’imitazione del copricapo cornuto sfoggiato da Jake Angeli a Capitol Hill: non riusciamo più a essere originali neanche nelle arrabbiature. A qualcuno farà pena, a qualcuno paura, ad altri provocherà soltanto un sorriso. Ma a tutti dovrebbe essere chiaro che non ascoltare l’urlo di dolore di quelli come Ermes, che sui social vengono sprezzantemente definiti «bottegai», avrà l’unico effetto di farli sentire sempre più soli, innaffiando di rancore il loro vittimismo. Distruggere gli anticorpi sociali della solidarietà (che è fatta anzitutto di comprensione e ascolto senza giudizio) li renderà disponibili ad abbracciare qualsiasi soluzione spiccia e reazionaria venisse prospettata loro da personaggi senza scrupoli. È una storia che nella Storia abbiamo già visto dipanarsi fin troppe volte per non chiedere una moratoria immediata.

CORRIERE.IT

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