Hanno tutti ragione | Di Battista e il sottopancia giudiziario, breve storia di una mala educazione
di Stefano Cappellini
Alessandro Di Battista funziona come uno specchio deformato: rimanda sempre l’immagine peggiore di te stesso. Ieri Dibba si è fatto vivo di nuovo per difendere un suo amico e sodale, Andrea Scanzi, sospeso dai programmi che lo pagavano per fare l’opinionista a causa della vicenda del vaccino conquistato di straforo grazie a un abile corteggiamento del suo medico di base. Ma non è di questo che parleremo.
Nel perorare la causa di Scanzi, Di Battista propone che a tutti i commentatori televisivi sia applicato un sottopancia – la scritta che di solito riporta nome, cognome e qualifica – che non si limiti ai dati anagrafici e professionali ma aggiunga il curriculum penale dell’ospite. Una specie di casellario giudiziario lampo, che offra al telespettatore un compendio delle condanne ricevute da chi parla o che, immaginiamo, lo battezzi “incensurato” se privo di carichi. Il senso della proposta è chiaro: si toglie il microfono a un sant’uomo come Scanzi e lo si offre a chi ha i veri scheletri nell’armadio.
Nel delirio giustizialista degli ultimi anni è una delle proposte più surreali, mezzo orwelliana mezzo facebookiana: in fondo per la generazione Dibba la voce “precedenti penali” rappresenta una molla pari a quella di Zuckerberg quando si rende conto che non può mandare on line il suo nuovo social network senza aver prima aggiunto la casella “stato sentimentale”. Al pari della gran parte dei deliri giustizialisti anche questa idea parte dal presupposto che sia una richiesta dei Buoni contro i Corrotti, dunque criticarla equivale a schierarsi dalla parte del Male. Siccome il fine è (sarebbe) buono, il mezzo non si discute. Se lo discuti, sei colluso, complice, peloso.
Possiamo prendercela con Dibba quanto vogliamo, ma questo schema non lo ha inventato lui e, sebbene si presti ai peggiori usi reazionari, in Italia nasce a sinistra. Eccolo, l’effetto specchio di Dibba.
Nasce a sinistra prima ancora di Tangentopoli, quando nella sua lotta al terrorismo il Partito comunista italiano sperimenta il primo collateralismo con le procure e l’azione dei pm riceve di fatto un impulso politico: l’intento è nobile e giusto, combattere il partito armato, l’applicazione della giustizia è invece spesso uno stupro dello Stato di diritto: carcerazione preventiva fuori controllo, mandati di cattura con ipotesi di reato cambiate in corsa, neutralizzazione della difesa, teoremi giudiziari come il 7 aprile 1979, data della retata nazionale contro i vertici di Autonomia operaia e avvio di uno scombinato iter giudiziario che Luigi Ferrajoli su Critica del diritto definì “un processo perverso figlio di tempi perversi”. Poco tempo dopo ci fu il caso Tortora, acme della giustizia fuori controllo e primo grande esperimento di processo mediatico: un innocente gettato in pasto a un’opinione pubblica affamata di vendetta e procedure sommarie, ancora più godibili grazie alla popolarità degli imputati (pm e giudici responsabili di quello scempio hanno tutti fatto fortunata carriera).
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