I nostri anziani trascurati, ora un investimento straordinario
di Maurizio Ferrera
Gli anziani stanno pagando un prezzo altissimo per la pandemia. Lo dimostrano giorno dopo giorno i dati sulla mortalità e sui ricoveri in terapia intensiva. È vero che gli over 80 sono in Italia particolarmente numerosi. Ma fatta cento la popolazione anziana, i nostri tassi di mortalità sono i più alti in Europa, dopo quelli del Regno Unito: 46 decessi ogni cento casi accertati, di contro ai 34 della Germania.
Le inefficienze organizzative, il deficit di informazione, lo scarso coinvolgimento dei medici di base e, da ultimo, il ritardo nelle vaccinazioni hanno giocato un ruolo determinante. Ma a monte c’è un problema più generale: l’inadeguatezza dei servizi di assistenza, in particolare quelli a sostegno della non autosufficienza. Per ogni mille anziani sopra i 65 anni di età, i posti disponibili nelle residenze assistite sono meno di venti, in Spagna sono il doppio, in Olanda il triplo. Più o meno la stessa situazione si registra per i servizi a domicilio. Oltre che sulla salute e sulla qualità della vita degli anziani, il deficit di servizi ha ripercussioni molto negative anche sull’occupazione. Molte donne sono costrette alla inattività o al lavoro part time per motivi di cura. L’atrofia dei servizi pubblici comprime l’offerta di posti di lavoro. Lo Stato risparmia in termini di spesa pubblica, ma molte famiglie devono pagare di tasca propria badanti e altre forme di aiuto. I circoli viziosi generati da questa situazione sono un «male collettivo» che va al più presto superato.
Nel contesto delle politiche pubbliche italiane, la parola «presto» ha perso purtroppo ogni significato. La Commissione Onofri aveva raccomandato una riforma dell’assistenza agli anziani già nel 1997. Nessun governo ha mai promosso un intervento di sistema, di ampio e lungo respiro. L’Unione europea ha da tempo incluso il sostegno alla non autosufficienza fra le priorità che gli Stati membri dovrebbero affrontare. L’articolo 18 del Pilastro europeo dei diritti sociali (il nuovo «faro» della politica sociale Ue) recita: «Ogni persona ha diritto a servizi di assistenza a lungo termine di qualità e a prezzi accessibili, in particolare ai servizi di assistenza a domicilio e ai servizi locali». Parole che sembrano scritte di proposito per dare una scossa ai governi italiani.
Oggi abbiamo un’opportunità di agire che non si ripeterà. Da un lato, il pacchetto Next Generation Fund mette a nostra disposizione una quota significativa di risorse per investimenti e riforme che siano in linea con l’agenda Ue. Dall’altro lato, esiste già un progetto elaborato dal Network Non Autosufficienza, promosso da Caritas, il Forum Diseguaglianza e Diversità e quello del Terzo settore, Cittadinanzattiva e molte altre organizzazioni della società civile. Manca solo la «scintilla», il veicolo decisionale. O meglio, il veicolo c’è, basta volerlo usare: il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, che il governo sta mettendo a punto per ottenere i fondi Next Generation. Per chi non lo vedesse, il nesso fra politiche a sostegno della non autosufficienza e generazioni future sta nell’alleggerimento dei carichi familiari per le donne e nell’espansione dell’occupazione, auspicabilmente anche sui tassi di natalità. Il nesso peraltro risponde ad un altro obiettivo chiave della Ue: la parità di genere.
Il progetto messo a punto dal Network prevede un forte rafforzamento dei servizi domiciliari, la riqualificazione e l’ammodernamento delle strutture residenziali, la creazione di punti di accesso unici per la definizione di prestazioni individualizzate, un nuovo modello di relazioni fra livelli di governo, coordinato in tandem dal Ministero della Salute e da quello del Welfare, e l’istituzione di un efficiente sistema di monitoraggio. La stima dei costi per il periodo 2022-2026 è di circa 7,5 miliardi.
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