Il labirinto di Salvini
Giovanni Orsina
L’ambiguità è da sempre la cifra di Matteo Salvini. Da quando più di sette anni fa, alla fine del 2013, è diventato segretario della Lega, è saltato a cavallo, in sequenza, di tre coppie di posizioni politiche ben poco compatibili l’una con l’altra.
La prima coppia dissonante che Salvini ha cavalcato metteva insieme l’identità padana e quella nazionale. Come Umberto Bossi aveva ben compreso già negli ultimissimi anni del secolo scorso, la Lega Nord sarebbe potuta sfuggire a un destino di marginalità localistica soltanto alleandosi con un partito capace di prender voti in tutta la Penisola. Il collasso del berlusconismo, fra il 2011 e il 2013, ha messo in crisi questa strategia. Con un’aggravante: al posto di Forza Italia non stava emergendo nulla che potesse svolgerne la funzione. La transizione verso la Lega nazionale e nazionalista è stata per tanti versi una mossa obbligata, allora: se il partner più grande non c’era più, e se la sua crisi rendeva inoltre disponibili milioni di voti, diventava possibile e al contempo necessario far da soli. La presenza in Europa di una posizione politica sovranista che in Italia non era rappresentata da nessun partito ma che avrebbe potuto incontrare il favore degli elettori da un lato, la crisi migratoria dall’altro hanno fatto il resto.
La seconda coppia Salvini l’ha cavalcata in tempi più recenti. Alle ultime elezioni politiche, nel 2018, si è presentato in coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma poi per un anno ha governato col Movimento 5 stelle. La Lega è passata insomma dal presentarsi come un partito di destra alleato con altri partiti di destra e contrapposto a quelli di sinistra, al proporsi come un partito populista alleato a un altro partito populista e contrapposto a quelli di establishment. Mentre a livello locale, peraltro, restava ancorato alla coalizione originaria. La terza coppia è storia di oggi: a farla breve, Draghi a Roma, Orbán a Bruxelles. Una riedizione della prima coppia, per certi versi: l’ingresso in maggioranza (Draghi) è stato sollecitato dai ceti produttivi dell’Italia settentrionale, là dove quel che resta del sovranismo euroscettico (Orbán) deve servire a conservare il consenso anche in altre fasce sociali e sul territorio nazionale. Come la prima, pure queste due ultime ambiguità sono state, se non proprio rese indispensabili, quanto meno sollecitate dalle circostanze: l’ingovernabile caos politico dell’attuale legislatura prima, l’emergenza pandemica poi. In questi ultimi anni del resto, e non per caso, incongruenze di ogni genere e cambi repentini di direzione politica non hanno di certo caratterizzato soltanto la Lega. Non solo: è possibile ipotizzare che quelle ambiguità abbiano tutto sommato evitato al Paese tensioni e strappi politici ancora più perniciosi.
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