Il labirinto di Salvini
L’«insurrezione populista» che ha preso avvio con le elezioni del 2013 ed è stata poi confermata e anzi amplificata in quelle del 2018 è scaturita da un autentico, profondo scollamento fra le forze politiche tradizionali e l’Unione europea da un lato e una parte molto consistente dell’elettorato italiano dall’altro. Una frattura che non sono riusciti a chiudere né i partiti cosiddetti populisti, che identificavano ed esprimevano disagi reali ma non sapevano dar loro risposte efficaci, né i partiti tradizionali, che posti di fronte a problemi pressoché insolubili – in particolare quelli creati dai molteplici, madornali errori commessi nella costruzione dell’Unione europea – hanno scelto di negarli o minimizzarli, delegittimando chi se ne lamentava. In queste circostanze l’ambiguità della Lega di Salvini, così come quella del Movimento 5 stelle, ha impedito, per quanto in maniera precaria, provvisoria e disfunzionale, che i lembi della lacerazione si divaricassero troppo. Con la pandemia questa vicenda è stata sospesa, ma dubito molto che si sia conclusa. Da quando è nato il governo Draghi, Salvini si è comportato in maniera più responsabile di quanto spesso non si dica, agitandosi e polemizzando poco più del minimo indispensabile a dare un segno di vita politica e affrontare la concorrenza di Giorgia Meloni. Ma non è affatto impossibile, purtroppo, che nei prossimi mesi la frattura di cui dicevo si ripresenti ancora più profonda che nel passato. A motivo delle conseguenze economiche e sociali del Covid, in primo luogo. Ma anche del doppio movimento per il quale la pandemia sta per un verso mettendo in luce crescente la fragilità patologica e apparentemente inemendabile della costruzione europea, per un altro rendendo l’Italia più che mai dipendente dall’Unione. Se così sarà, se la lacerazione dovesse aggravarsi, dovremo allora augurarci che l’ambiguità di Salvini continui a svolgere efficacemente la propria funzione.
LA STAMPA
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