Covid, lo studio israeliano: la variante sudafricana «buca» il vaccino Pfizer

Le altre ricerche

La ricerca è destinata a sollevare domande su un altro studio del mondo reale condotto da Pfizer che ha concluso come il vaccino mRNA mantenga una protezione di almeno sei mesi anche contro la variante più temuta rispetto ai vaccini, quella sudafricana appunto. In Sudafrica sono stati arruolati 800 partecipanti e sono stati osservati nove casi di Covid, tutti nel gruppo placebo, indicando un’efficacia del vaccino del 100%, ha riferito la società una decina di giorni fa. La nuova ricerca di Tel Aviv va in senso opposto e sembra invece confermare un recente studio dell’Università Be-Gurion del Negev che ha scoperto che il vaccino è meno efficace contro la variante sudafricana (indagine su campioni di sangue). Anche altre analisi in vitro avevano concluso che la variante sudafricana sarebbe in grado di aggirare le difese e provocare reinfezioni.La nuova ricerca israeliana però non indica con precisione il livello di protezione contro la variante perché la sua prevalenza in Israele è molto bassa e rappresenta solo l’1% di tutti i casi (in Italia siamo allo 0,1% dei casi secondo l’ultimo report).

Lo studio della terza dose

La diffusione delle varianti (in particolare la sudafricana e la brasiliana che hanno in comune le mutazione E484K, capace di eludere parzialmente la protezione vaccinale) preoccupa i governi di tutto il mondo. Tanto che le case farmaceutiche si sono già mosse e stanno studiando una «terza dose» proprio per aumentare la protezione contro le varianti più insidiose. Sembra infatti sempre più probabile l’ipotesi che siano necessari periodici richiami, soprattutto tra gli anziani, la popolazione più fragile, come già succede con l’influenza. Pfizer-BioNTech stanno testando una terza dose del loro vaccino Covid-19 per comprendere meglio la risposta immunitaria contro nuove varianti del virus. Anche Moderna ha sviluppato un vaccino contro la variante sudafricana e ha consegnato le dosi al National Institutes of Health statunitensi per l’avvio dello studio clinico. Aggiornare i vaccini con la tecnologia a mRNA è più facile e veloce mentre le cose si fanno più complesse con i vaccini a vettori virali per importanti limiti tecnologici a causa dell’immunità nei confronti degli adenovirus utilizzati come trasportatori del materiale genetico che codifica una proteina di Sars-CoV-2 (lo abbiamo spiegato qui).

L’efficacia dei vaccini

Infine va ricordato, e questo vale sempre, anche con le varianti, che i vaccini diventano pienamente efficaci all’incirca a partire da una settimana dopo la seconda dose (i dati possono variare leggermente da vaccino a vaccino). E anche questo studio israeliano lo dimostra dal momento che si sono verificati contagi, anche con variante britannica, tra la prima e la seconda iniezione. È infatti possibile contagiarsi tra una dose e l’altra perché la carica anticorpale non è ancora al suo massimo livello. Tuttavia è possibile ammalarsi di Covid-19 anche dopo aver fatto due dosi di vaccino (in genere non in modo grave) e questo perché i vaccini anti Covid-19, come tutti gli altri vaccini, non sono efficaci al 100%. Qualcuno resterà scoperto perché per qualche motivo non sviluppa sufficienti difese immunitarie. A questo punto vale la pena ribadire come va interpretato il valore di efficacia di un vaccino (dato in realtà non comparabile tra i vari prodotti perché i trial sono stati condotti in luoghi e tempi diversi). Avere un vaccino efficace al 95% come Pfizer non significa che si ammaleranno 5 persone ogni 100. Il dato di efficacia è relativo alla protezione individuale ed è una cifra probabilistica. Se il vaccino è efficace al 95% ogni individuo che conclude il ciclo vaccinale con quel prodotto ha il 95% in meno di probabilità di essere contagiato ogni volta che viene esposto al virus rispetto a un individuo che non è vaccinato.

CORRIERE.IT

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