La crisi non è uguale per tutti

di MICHELE BRAMBILLA

Delle due foto che vedete qui sopra, guardate innanzitutto quella in alto. L’ha scattata il sottoscritto domenica pomeriggio all’ingresso di un centro commerciale della Brianza. Come vedete, c’era un centinaio di persone in coda per entrare. Non si pensi che gli ingressi fossero contingentati o che fosse previsto un controllo della temperatura particolarmente lungo. Dentro, le persone erano già almeno un migliaio. Tutto regolare, sia chiaro: mascherine, distanziamento eccetera. Ma che cosa devono pensare tutti coloro che da un anno sono costretti a stare chiusi? Ristoranti, bar, palestre, cinema e teatri? Che cosa devono pensare se non un “perché loro possono e noi no”? 

Quella foto introduce un tema di cui non si parla quasi mai: il senso di disparità di trattamento percepito da una buona parte del popolo italiano. Infatti, si pensa sempre che la rabbia (vedi ora la foto sotto) sia provocata dal fatto che certe categorie sono esasperate da un anno di crisi. Invece no, non è solo quello il motivo di tanta rabbia. C’è anche la percezione – ma meglio sarebbe dire la constatazione – che il conto del Covid l’abbia pagato solo una parte degli italiani. E cioè quegli italiani che non possono riaprire e vedono altri che non devono chiudere.

Molti ristoratori, baristi, gestori di cinema teatri e palestre dicono: anche noi possiamo garantire misure di sicurezza, perché non vi fidate? Perché loro possono e noi no? È un senso di ingiustizia che si somma a un altro fatto oggettivo: e cioè che i commercianti e le partite Iva hanno visto crollare i loro redditi, mentre i lavoratori dipendenti, specie nel settore pubblico, hanno continuato a prendere lo stipendio, magari lavorando da casa. E si fa fatica a far capire che questi che ora protestano sono la parte più debole del Paese.

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