Vaccini Pfizer, l’ad Bourla: «Entro l’autunno il ritorno alla normalità. In futuro il Covid-19 diventerà come un’influenza»

di Federico Fubini

Vaccini Pfizer, l'ad Bourla: «Entro l'autunno il ritorno alla normalità. In futuro il Covid-19 diventerà come un'influenza»

Albert Bourla, ad di Pfizer

Albert Bourla porta un grosso anello con una pietra nera alla mano sinistra, gesticola, sorride, evita il solito gergo aziendale dei grandi capi delle multinazionali. «Non sono Zorba, ma sono un vero greco», dice il presidente e amministratore delegato di Pfizer in un’intervista al Corriere e a altri tre quotidiani europei. «Come parlo, come mi comporto: tutto questo credo abbia fatto una differenza nella mia carriera. Ho tenuto saldi i principi ma dicevo le cose apertamente, rumorosamente, come fanno i greci. Mi ha aiutato molto». Albert Bourla incarna la più grande speranza esista oggi al mondo di uscire dalla peggiore pandemia dell’ultimo secolo.

Neanche lui se lo sarebbe aspettato quando nel 1993, piccolo veterinario di Salonicco, entrò in Pfizer per un lavoro sulla salute animale in Grecia. Già sembrava improbabile che fosse lì. I suoi genitori erano stati fra i pochissimi sopravvissuti ai rastrellamenti nazisti contro gli ebrei sefarditi di Salonicco. Sua madre fu portata via da un parente non ebreo, che corruppe un ufficiale minuti prima del plotone di esecuzione. Suo padre era per caso fuori dal ghetto quando tutti furono presi e deportati. Oggi Bourla parla quasi ogni giorno via Zoom con Uğur Şahin, il medico di origine turca, musulmano, con il quale ha sviluppato il vaccino Covid di maggiore impatto per l’umanità. «Penso che sia un messaggio meraviglioso. Siamo amici. Abbiamo iniziato a lavorare insieme un anno fa senza neanche avere un contratto, non c’era tempo di scriverlo. Dovevamo salvare il mondo». Pfizer ha rifiutato gli enormi sussidi del governo americano, ma è arrivata per prima all’autorizzazione di un vaccino contro il Covid-19.

Come avete fatto?
«C’è un rapporto fra le due cose. Siamo andati veloce, più veloci di piccole biotech, anche se ci si poteva aspettare che, grandi come siamo, saremmo stati più lenti. Ci siamo dedicati completamente all’obiettivo e io ho cercato di proteggere i nostri scienziati dalla burocrazia che i sussidi pubblici portano con sé. Quando prendi soldi dal governo, ci sono obblighi ed è giusto che sia così: il governo vuole sapere come spendi, dove, e che piani hai. Non è solo il tuo progetto, sono anche i loro soldi. Questo io non lo volevo. Volevo che i nostri scienziati avessero tutte le risorse a loro disposizione, dato che gli stavo chiedendo di rendere possibile l’impossibile. Non gli potevo chiedere di fare in nove mesi qualcosa che di solito richiede dieci anni, se dovevano anche preoccuparsi dei soldi. Quindi, abbiamo rischiato due miliardi: questa è la dimensione dell’investimento, non poca cosa. Sapevo che se avessimo fallito, finanziariamente Pfizer avrebbe sofferto. Ma sapevo anche che, grazie alle nostre dimensioni, un fallimento non avrebbe distrutto l’azienda. Non ci avrebbe affondato. E sapevo che se avessimo fallito, avremmo avuto problemi molto più grandi: non noi soltanto, il mondo intero. Dunque non volevo neanche pensare che il fallimento fosse una possibilità. E alla fine siamo riusciti a fornire vaccini sicuri e efficaci e a produrli molto rapidamente».

Quanto ci metteranno i Paesi avanzati a tornare a un po’ di normalità? Per quando crede che in Europa riusciremo a essere tutti vaccinati?
«Non posso parlare per le altre aziende farmaceutiche. Noi stiamo programmando di aumentare drasticamente le nostre forniture di vaccini ai Paesi europei nelle prossime settimane. In questo trimestre consegneremo oltre quattro volte di più di quanto abbiamo fatto nel primo trimestre: 250 milioni di dosi, dopo averne date 62 fino a marzo. E siamo in discussioni per fare di più. Ho fiducia che ci riusciremo. Certo, c’è sempre la possibilità che qualcosa vada storto, come si vede dai problemi che stanno avendo altre aziende. Qualche questione può sempre sorgere, quando hai a che fare con la manifattura complicatissima di prodotti biologici. Ma sono ottimista, ho fiducia, perché finora abbiamo prodotto tantissimo ed è andata a buon fine quasi nel 100% dei casi. Non ci sono stati lotti da buttare. Il nostro processo produttivo si è dimostrato stabile e affidabile».

Ma crede che un ritorno alla normalità in autunno sia realistico?
«Credo di sì. Lo vediamo dall’esempio di Israele. Certo, Israele è un Paese piccolo, con i confini chiusi. I movimenti in entrata e in uscita sono limitati e la popolazione vive in uno stato di guerra quasi continuo, dunque sa come rispondere rapidamente a una crisi. Ma lì siamo riusciti a dimostrare al mondo intero che c’è speranza. Quello era il senso dello studio sui dati israeliani. Sapevamo che l’euforia dopo i primi vaccini sarebbe venuta meno quando, mese dopo mese, la gente vede che la vita non cambia molto. Ma in Israele si vedono i veri effetti del vaccino: quando copri una parte importante della popolazione, diventa possibile tornare quasi alla vita di prima. Il punto è quando si riesce a vaccinare la gente. Ma dal nostro punto di vista, sono ottimista: consegneremo numeri importanti di dosi».

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