Vaccini Pfizer, l’ad Bourla: «Entro l’autunno il ritorno alla normalità. In futuro il Covid-19 diventerà come un’influenza»
Le forniture all’Europa: «Tutti stiamo accelerando la produzione»
Ha un calendario mese per mese e delle quantità prefissate da fornire all’Unione europea nel 2021?
«Certo. Abbiamo un’idea e abbiamo anche una pianificazione molto rigorosa. Ne parliamo con l’Unione europea ogni
settimana. Loro vogliono vedere gli aggiornamenti e noi li forniamo.
Credo siano soddisfatti, come noi, perché finora siamo sempre stati in
anticipo sulla tabella di marcia. Nel nostro stabilimento di Puurs, in
Belgio, entro maggio programmiamo di raggiungere il ritmo di circa 100
milioni di dosi prodotte al mese. Con miglioramenti significativi e
continui a seguire nei prossimi mesi».
Come spiega che l’Europa sia indietro sui vaccini rispetto agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna?
«Guardi, l’erba del vicino è sempre la più verde. Se vede i dati sull’Europa,
non credo sia indietro rispetto a altri grandi Paesi complessi. Fornire
le dosi per 447 milioni di persone e somministrarle è una missione
colossale. Per quel che vedo dal nostro lato, funziona come un
ingranaggio ben oliato. Tutti i 27 Paesi stanno ricevendo quanto richiesto,
spediamo in molti centri in ogni Stato ogni settimana. Tutte le dosi
arrivano, con una precisione del 99,9%. Il problema è che la Ue è molto
grande e non tutti i fornitori sono riusciti a consegnare quanto
promesso. Questo ha creato temporaneamente dei problemi.
Ma ora stiamo tutti accelerando la produzione e credo che entro un paio
di mesi non ci sarà più un problema di disponibilità. Le quantità
basteranno. La luce che vediamo in fondo al tunnel inizierà a diventare
sempre più intensa».
I nuovi negoziati con la Commissione: «Centinaia di milioni di dosi in più»
Dopo
AstraZeneca, anche Johnson & Johnson sta incontrando problemi sui
vaccini. Riuscirete voi di Pfizer a compensare per parte delle consegne
mancanti?
«Se ce ne danno l’opportunità, Pfizer e BioNTech sono
pronte a fornire all’Europa centinaia di milioni di dosi in più nel 2022
e nel 2023, prodotte nei nostri impianti europei. La nostra rete ha la
capacità di produrre più di tre miliardi di dosi l’anno prossimo».
La Commissione Ue ora parla di un accordo con voi per 1,8 miliardi di dosi nel 2022 e 2023. Può dare dei dettagli?
«Stiamo
negoziando con la Commissione e con molti altri Paesi nel mondo su
contratti pluriannuali di fornitura di vaccini Covid nel 2022 e 2023.
Sono felice di poterlo dire. Vogliamo essere dei partner nel lungo
periodo delle autorità sanitarie di tutto il mondo nella lotta a questa
pandemia».
Lei si sente solo con Bruxelles o anche con i leader nazionali?
«Parlo
a entrambi. Parlo molto spesso con la Commissione al livello più alto e
ho discusso varie volte con Ursula von der Leyen, che ora ha il
controllo della situazione. Non ho mai visto un leader che conosce così
tanti dettagli sul Covid come lei. Ma parlo anche con diversi capi di
Stato e di governo. Telefonano e ovviamente io sono sempre disponibile e
parlare e spiegare la situazione. Sono preoccupati per i loro
cittadini, per le loro famiglie e vogliono il meglio per i loro Paesi.
In questo momento, la collaborazione di Pfizer con l’Europa è
eccellente».
Gli studi: «Per ora il vaccino Pfizer ci risulta sicuro sulle varianti»
Cosa si sa della possibilità che i vaccinati possano essere portatori sani e infettino altre persone?
«Nei nostri studi vediamo che l’effetto di prevenzione dei vaccini è molto alto. Ne abbiamo conferma anche nei dati da Israele,
che ha usato solo il nostro vaccino e su milioni di persone riporta
un’efficacia del 97%: anche più alta che nel nostro studio. I dati
israeliani danno anche un’efficacia al 90% negli asintomatici. Questo è
estremamente importante, perché i portatori asintomatici di solito sono i
grandi diffusori. Abbiamo per la prima volta la prova da una
popolazione così numerosa, come appunto Israele, il nostro vaccino
controlla anche le infezioni. In più all’85% il campione israeliano è di
casi della variante inglese, che è la più trasmissibile ed è quella che
sta invadendo il mondo. Ma appunto il vaccino l’ha fermata».
Cosa avete capito dell’efficacia del vostro prodotto su varianti complicate, poco controllabili, come quella sudafricana?
«Abbiamo
appena finito uno studio su 46 mila individui e siamo pronti a
presentare i risultati finali. Nel campione 800 persone erano in
Sudafrica, dove appunto c’è una delle varianti più difficili, ma anche
in quel caso l’efficacia è stata al 100%. Per ora non vediamo nessun indizio che le varianti conosciute producano una perdita della protezione dal nostro vaccino».
Le dosi sono sicure? Cosa sapete in proposito?
«Continuiamo
aggiornare i dati, a questo punto con centinaia di milioni di
somministrazioni. E non ci è stato riportato nessun problema serio».
State lavorando a un vaccino per bambini?
«Abbiamo già l’approvazione per l’età 16-18 anni con il 100% di efficacia. Ora abbiamo finito gli studi sui 12-15 anni e abbiamo fiducia che avremo un’altra approvazione. Nel frattempo abbiamo già iniziato a lavorare sugli effetti di 5-11 anni, fra i due e i cinque e fra i sei mesi e i due anni. Facciamo grande attenzione, quando lavoriamo con i bambini. Abbiamo iniziato con dosi piccolissime e poi cerchiamo di capire quali sono i livelli adatti per creare una protezione».
Una pandemia permanente? «No, presto il Covid sarà come l’influenza»
Alcuni
osservatori pensano che siamo di fronte a una pandemia permanente, con
nuove varianti che sorgono sempre prima che tutti siano vaccinati dalle
vecchie. Poi serve tempo per produrre e fornire copertura da quelle
nuove, che iniziano a circolare. Cosa ne pensa?
«Non lo sappiamo. È
una possibilità? Sì. Credo che lo scenario più probabile sia quello in
cui arriviamo a una situazione endemica. Ma vediamo le cose nel loro
contesto: penso che sarà pienamente controllabile. E non sono ottimista a
causa del mio temperamento mediterraneo. Ho i dati. Io so che noi
abbiamo uno degli strumenti più potenti che siamo mai stati creati nella
medicina, un vaccino con almeno il 95% di efficacia. Con l’RNA
messaggero (mRNA, ndr), noi abbiamo una tecnologia che si può adeguare
molto rapidamente se compare una variante. Con altre tecnologie lo si
può fare nel giro di mesi, perché bisogna ottenere il virus, coltivarlo e
fare i test. Con la tecnologia mRNA invece lavoriamo su file di
computer. Non appena la sequenza del virus è stata resa nota abbiamo
ricevuto il file da un laboratorio e da lì abbiamo sviluppato un
vaccino. È tutto altamente digitalizzato, automatizzato. Per quello gli
errori umani sono rari. E sapendo che possiamo riprendere rapidamente
controllo di qualunque variante e che abbiamo un efficacia del vaccino
almeno al 95%, credo che questa diventerà come un’influenza. Ci
vaccineremo e vivremo pienamente le nostre vite. Certo, questa è solo la
mia stima. Le cose possono cambiare. Ma sulla base di tutto quel che ho
visto, questo è lo scenario più probabile».
All’inizio, lo RNA messaggero era stato
sviluppato per i tumori. Grazie a questa tecnologia, i progressi degli
ultimi mesi segneranno una trasformazione in meglio anche per altre
malattie?
«Sì. Non è la prima volta che abbiamo una svolta
tecnologica nella scienza che dimostra effetti drasticamente positivi.
Ma questa è una di quelle. Credo che saremo in grado di controllare come
usarla al meglio. Era da almeno tre anni che lavoravamo con BioNTech
per sviluppare da mRNA un vaccino per l’influenza. Noi alla Pfizer
abbiamo esperienza con tutte le piattaforme: non solo mRNA, anche
l’adenovirus e i vaccini basati sulle proteine. Abbiamo scelto la
tecnologia mRNA anche se non era la strada più ovvia, dato che questo
sarebbe stato il primo vaccino a base mRNA nella storia. Ma ci sentivamo
convinti di poter controllare questa tecnologia, avendoci lavorato già
per due anni. Sapevamo che il partenariato fra noi e BioNTech era
abbastanza maturo per farci andare avanti. Oggi la potenza dello mRNA è
molto chiara. Può essere usata per altri vaccini e c’è una ricerca
crescente nel mondo riguardo a altre malattie che possono essere
trattate con questo strumento. In particolare i tumori e malattie con
cause genetiche».
Pfizer e BioNTech: gli impianti nell’Unione Europea
BioNTech
sta sviluppando un secondo impianto a Marburg, in Germania. Cosa può
dirci della vostra partnership con loro e di come vi siete accordati per
la ripartizione dei ricavi?
«Prima, vorrei dire che la nostra con
loro è una grande partnership. Lo è perché quando abbiamo iniziato a
discutere con BioNTech, avevamo una cosa chiara in mente: non era una
questione di fare business, ma di salvare il mondo. Sapevamo che
dovevamo fare tutto il possibile per produrre un vaccino. Quando abbiamo
iniziato a lavorare con BioNTech, non avevamo un contratto. Ho parlato
con Uğur Şahin – parlo con lui tre, quattro volte alla settimana, siamo
amici ora – e ci siamo detti: se aspettiamo di avere un accordo prima di
iniziare a lavorare, perderemo tempo. Questi sono accordi
multimiliardari, servono dei mesi. Invece è bastata una stretta di mano –
digitale, attraverso Zoom – e siamo partiti. Dopo tre settimane abbiamo
firmato una lettera di intenti di due o tre pagine, invece di un
contratto di mille pagine che queste partnership di solito comportano.
Rimarrà scioccato se le dico quando abbiamo firmato il nostro accordo
commerciale finale: a gennaio 2021. Tutto era già fatto, e stavamo
lavorando da un pezzo sulla fiducia che noi due abbiamo l’uno
nell’altro. Abbiamo ancora alcuni accordi da definire, ma nessuno di noi
ha il tempo in questo momento perché stiamo lavorando sulle nuove
varianti».
E il vostro accordo di ripartizione dei ricavi?
«È una partnership fifty-fifty».
Anche sul nuovo stabilimento BioNTech a Marburg?
«No,
loro hanno il loro sito di produzione, noi abbiamo i nostri. Noi
produciamo e sosteniamo dei costi e loro anche. Poi mettiamo insieme
tutte le spese, tutte le entrate e tutti i profitti. E facciamo la
ripartizione».
Pfizer consegna le sue dosi a migliaia di centri in tutta la Ue. Questo spiega il prezzo elevato del vostro prodotto?
«Non
sono a conoscenza dei prezzi fissati dalle altre aziende, ma ci sono
fughe di notizie nella stampa che ho visto anch’io. E vedo alcuni prezzi
più bassi, come altri più alti dei nostri. Noi abbiamo bisogno di
alcuni principi di equità, il che significa che dobbiamo dare di più a
quelli che hanno più bisogno. Abbiamo deciso per un sistema a più
livelli. Iniziamo con i Paesi ad alto reddito come l’Europa, gli Stati
Uniti, il Giappone o il Canada: ci potrebbero essere alcune differenze
se ci sono volumi più alti che permettono qualche sconto, ma c’è un
prezzo chiaro che chiamerei il “costo di un pasto”. È un prezzo sotto a
quelli di qualsiasi vaccino abituale, anche se questo ha effetti
inestimabili: non solo salva vite umane, ma permettono una riapertura
dell’economia. L’impatto benefico dei vaccini si misura in migliaia di
miliardi e noi li stiamo dando al costo di un pasto. Nei Paesi a medio
reddito, stiamo dando il vaccino a quasi la metà di quel prezzo. E nei
Paesi a basso reddito lo diamo a prezzo di costo. Cerchiamo di fare in
modo che tutti alla fine abbiano accesso, e non solo perché è giusto:
teniamo anche presente che in una pandemia sei protetto tanto quanto il
tuo vicino. Non di più. Se le persone in Africa non ricevono abbastanza
vaccini, l’Africa diventa il bacino dove il virus continuerà a
replicarsi ed è qui che la maggior parte delle varianti può iniziare ad
apparire».
Dopo quanto tempo le prime due dosi smettono di essere efficaci e le persone devono essere vaccinate di nuovo?
«Stiamo
studiando questo punto e abbiamo i primi risultati a sei mesi dalla
vaccinazione. A quel punto la protezione è ancora molto alta. Non come
nei primi due mesi, che è del 95%. Scende progressivamente, ma rimane
ancora molto al di sopra dell’80% di efficacia. È una buona notizia.
Sembra che fare un richiamo sarà necessario, ma non possiamo parlare
prima di vedere i dati e al momento li abbiamo solo su sei mesi dopo le
prime somministrazioni».
Teme che un giorno, forse tra qualche mese, il vaccino diventi un bene pubblico globale senza alcun brevetto o licenze?
«Non
sono preoccupato. Il vaccino diventerà un bene pubblico globale perché
avremo prodotto abbastanza dosi. C’è sempre un po’ di retorica. Ma non è
vero che i diritti di proprietà intellettuale ostacolano la produzione
delle dosi. Il vero intralcio è che ci siamo mossi alla velocità della
luce. Abbiamo sviluppato in tempo record un vaccino che non era mai
stato prodotto prima. Non c’era nessuna struttura al mondo, dentro o
fuori Pfizer, che producesse mRNA. Non c’era nulla, quindi abbiamo
dovuto iniziare da zero. E abbiamo dovuto farlo accettando il pieno
rischio di fallimento. Essere in grado di fornire centinaia di milioni
di dosi finora è stato un miracolo. Presto saranno miliardi. Quello che
facciamo pagare non è molto e non stiamo cercando di produrre meno di
quanto potremmo. Cerchiamo ovunque di trovare altri che possano produrre
per noi, fino ai laboratori molto piccoli che possono fare 10 milioni
di dosi. Miliardi di dosi hanno richiesto investimenti davvero
importanti, completati in un periodo di tempo breve».
Albert Bourla: «Io, ebreo di Salonicco, lavoro con due turchi musulmani»
Lei
viene da Salonicco ed è di estrazione ebraica. Oggi lei è a capo di una
multinazionale enorme e sta collaborando con scienziati turchi
musulmani in Germania. Che lezione ne trae?
«Penso sia un messaggio meraviglioso per il mondo».
Che cosa?
«Che un ebreo greco
e dei turchi musulmani, entrambi immigrati in paesi diversi, stiano
collaborando e che stiano facendo degli sforzi senza nemmeno firmare un
contratto, solo per salvare il mondo. Il fatto di essere un immigrato
penso sia la caratteristica più importante di tutte. In Pfizer abbiamo
vissuto in 8 città diverse di 5 Paesi. Questo ha dato a me e ai miei
figli il regalo più bello: essere esposto a culture diverse».
Lei è a capo di una grande azienda americana. In Europa la sua carriera sarebbe stata possibile?
«È la domanda più difficile. Sono stato eletto amministratore delegato di questa azienda da un consiglio di amministrazione che conosceva le mie umili origini da un piccolo Paese. Sapevano che parlo con il mio accento pesante e che in inglese sparo qua e là parole sbagliate. Eppure mi hanno scelto come amministratore delegato di una delle più grandi corporation. Quando mi hanno dato la notizia, sapete cosa ho detto a loro? “Only in America”».
CORRIERE.IT
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