Una grande politica per i giovani

Massimo Cacciari

Dovremmo affrontare la pandemia come segno rivelatore di una condizione culturale e sociale che coinvolge tutte le dimensioni della nostra vita. Allora, forse, potremmo anche uscirne “migliori”, come qualche anima bella continua a predicare. Non è la diffusione planetaria del virus, il moltiplicarsi delle sue varianti, l’anarchica varietà nei modi di affrontarlo un fenomeno clamoroso dell’assenza di ogni “governo” nei processi di globalizzazione? Governare un processo significa comprendere la stretta interdipendenza tra le sue facce e, grazie a una tale conoscenza, essere in grado per quanto possibile di prevenire le conseguenze delle contraddizioni che inevitabilmente ne sorgono.

In questo caso specifico, i nessi tra disastro ambientale e politiche in campo medico-sanitario sono rimasti ignorati o, comunque, non praticamente affrontati. Il “governo”insegue l’emergenza, frena, tampona e rimedia quando va bene. Magari lo “stato di emergenza” in cui viviamo fosse l’espressione di un “piano” di deriva autoritaria! “Temo” che a crederlo lo si nobiliti troppo e che si tratti invece soltanto di impreparazione e impotenza. Anche la combinazione sempre più allarmante tra conclamata debolezza delle democrazie rappresentative e pulsioni decisionistiche mi sembra tanto più pericolosa.

In quanto non prodotto di una strategia, ma dettata appunto da esigenze occasionali, rimedi improvvisati. Questo vale in particolare per le conseguenze sociali che la crisi già manifesta, almeno in tutti i Paesi leader fino a qualche decennio fa dello sviluppo tecnico-economico. Usciremo dalla pandemia con una drastica e irreversibile riduzione di occupazione in tutti i settori tradizionali. Un bene, certamente, se ciò significasse “liberazione” da vecchie forme di lavoro comandato e alienato – un disastro, se ciò comporta soltanto più disoccupazione, frustrazione, disuguaglianza. Ed è proprio quest’ultima che va crescendo esponenzialmente. I nostri “cittadini” appartengono ogni giorno di più a due classi distinte, che più nulla hanno a che vedere con quelle di una volta: coloro che, in una forma o nell’altra, sono i “funzionari”del progresso tecnico-scientifico e i manager del sistema finanziario-economico, più qualche professione al vertice, da un lato, e una massa di individui in condizioni più o meno dolorose di precarietà, che vedono quotidianamente franare il proprio status economico e la propria immagine sociale, dall’altro. La maggioranza della popolazione è fatta di questi ultimi. E nel nostro Paese questa disuguaglianza si accompagna e moltiplica con quella tra Nord e Sud. E’ pura illusione pensare che simili fratture sociali, il formarsi di una neo-plebe di massa(come ha detto Paolo Perulli nel suo recente, importante libro, “Passaggio al nuovo mondo”, edito dal Mulino) possano non avere conseguenze sui nostri equilibri politici e sulle nostre istituzioni democratiche.

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