Il dopo virus e le ferite da curare
Massimo Giannini
Dice Mario Draghi: “Guardiamo al futuro con prudente ottimismo e fiducia”. Vorremmo credergli, mentre pensiamo già al 26 aprile come a un’appendice festosa del 25: il giorno di un’altra Liberazione, non più solo dal giogo del nazifascismo, ma anche dal morso della pandemia. Non sappiamo se andrà davvero così. La scommessa “aperturista” del governo riposa sull’efficienza della macchina vaccinale (palesemente fallibile) e sulla coscienza del popolo italiano (notoriamente labile). Il “rischio ragionato” che ha spinto il premier ad anticipare i tempi della ripartenza riposa su curve di contagio e di mortalità non dissimili da quelle della Germania, dove Angela Merkel ha preso la decisione opposta, inasprendo addirittura il lockdown. “Ciò che è pensabile o impensabile non lo decidiamo noi, lo decidono i numeri”, aveva assicurato il presidente del Consiglio, mettendo a cuccia Salvini.
L’impressione è che stavolta, più che l’aritmetica, abbia pesato la politica. La sensazione che la “pandemic fatigue” veicolata insieme al virus nelle vene del Paese abbia raggiunto il livello di guardia. La preoccupazione che dopo un anno di clausura sociale e di chiusura industriale i cittadini siano arrivati davvero alla rivolta di piazza, dove certamente si insinua la solita destraccia squadrista che strumentalizza. Eppure, come dice Marco Revelli, si può strumentalizzare solo una cosa che esiste. E il disagio esiste: diffuso, profondo e reale tanto quanto il Covid che lo nutre, lo ingrassa, lo fa deflagrare. Dunque, speriamo. Speriamo che la decisione politica sia coerente con l’evoluzione sanitaria. E speriamo che l’altra scommessa legata alle ripartenze, quella sulla crescita e sul debito, sia altrettanto credibile. Mentre vediamo una luce in fondo al tunnel, e forse per la prima volta pensiamo sia l’uscita che si avvicina e non il treno che arriva, dobbiamo avere piena coscienza del “dopo”. Da quel tunnel usciremo con un corpo sociale martoriato e un tessuto produttivo lacerato. Le ferite da curare saranno tante.
Andrà ripensato il patto fiscale. In Italia un dipendente con 35 mila euro di reddito lordo, coniuge e due figli, paga imposte per 6.695 euro l’anno: in Germania ne paga 1.250, in Francia 600. Nel 2019 gli Over the Top, con fatturati vicini o superiori al miliardo, hanno versato meno tasse dei loro impiegati: Microsoft 16 milioni, Amazon 11, Google 6. In poco meno di un anno il mondo ha conosciuto una distruzione di reddito pari a 250 miliardi di dollari: più del doppio rispetto al Big Crash del 2008. In una manciata di mesi la “neo-plebe di massa” di cui parla Massimo Cacciari è aumentata di 25 milioni di individui, mentre le 500 persone più ricche della Terra hanno accresciuto il patrimonio fino alla cifra-monstre di 7.600 miliardi di dollari: più della somma del Pil di Francia e Germania messe insieme.
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