Il dopo virus e le ferite da curare
Andrà ripensato il patto sociale. Aggredito dalla globalizzazione e spiazzato dall’innovazione, il Welfare ottocentesco di Bismarck e Beveridge è prossimo alla bancarotta. Redditi di cittadinanza e di emergenza attenuano le fasi acute, ma non guariscono la malattia. Servono strumenti di tutela universale, ma anche basi contributive e occupazionali più vaste. In Italia, a parte il furto di futuro sofferto da donne e giovani, 9 milioni e mezzo di occupati nel settore privato vedono a rischio il posto di lavoro e 4 milioni prevedono una riduzione del reddito. Tra il 1999 e il 2019 gli americani tra i 25 e i 54 anni usciti dal circuito del lavoro sono stati quasi 5 milioni, più di 6 volte il numero delle persone coperte dal sistema di sicurezza sociale. Tra il 2014 e il 2018 in Gran Bretagna il budget pensionistico è cresciuto di 4 miliardi di sterline, mentre il resto della Social Security è dimagrito di 16,5 miliardi. In Europa e in Italia, fatte le dovute proporzioni, era andata anche peggio. Dall’inizio del Covid, i Paesi Ocse hanno annunciato piani di sostegno alle economie per 13,8 mila miliardi di dollari: il 13,5 per cento del Pil mondiale e il quadruplo del supporto varato nel 2008.
Andrà rifondato il patto generazionale. Come ha detto il premier, questo è il momento di spendere in deficit. Vero, com’è vero però che stiamo consegnando ai nostri figli una cambiale in bianco di proporzioni mai conosciute nella Storia. Nell’area G7 il debito totale medio è lievitato dal 118 al 141 per cento, nell’eurozona dall’84 al 101, in Italia salirà quest’anno al 159,8. Draghi ci indica due soluzioni. La prima è appunto la crescita. Ma qui resta un fatto: la nostra economia è cresciuta ai tassi medi più basso del mondo nel primo decennio, mentre la produttività totale dei fattori, che nei 30 anni del dopoguerra era esplosa del 60 per cento, nei 40 successivi è crollata del 45. Un declino di questa portata non si recupera in mezza legislatura. La seconda è appunto il “debito buono”, quello che contrai per pagare le migliori scuole ai tuoi figli e non per andare in vacanze alle Maldive. Ma qui ha ragione Veronica De Romanis: nessuno ci dice fino a quando potremo permettercelo. E soprattutto nessuno ci garantisce che, potendo aprire i cordoni della borsa in pieno ciclo elettorale, maggioranze consociative e minoranze corporative sapranno discernere il debito buono da quello cattivo.
Per questo andrà riscritto anche il patto politico. Da zelanti addetti ai lavori e ai livori di palazzo, ci interroghiamo su chi ha vinto e chi ha perso il derby governativo tra “aperturisti” e “chiusuristi”. Salvini gonfia il petto, anche se non può esibire lo scalpo di Speranza. A sua volta Speranza si protegge dietro allo scudo del premier, anche se deve arretrare dal fronte del rigore. La coalizione innaturale litiga, strepita, si divide ma alla fine va avanti, perché Draghi sembra conoscere il percorso e sapere come farsi seguire dall’intendenza. Parla poco e quando serve, lascia sfogare quanto basta i partiti, consapevole che le differenze sono tante e che le “bandierine identitarie” sventoleranno ancora a lungo, visto che in autunno si vota nelle grandi città. Ma poi decide. Nel bene (come ci auguriamo succeda per la road map delle riaperture e per il Recovery Plan di cui ancora nulla ci è dato sapere) e anche nel male (come è successo sul condono nel primo decreto sostegni e su Zaki nella conferenza stampa di venerdì). Se durerà fino alla scadenza naturale del mandato è difficile dire. A due mesi dalla sua discesa in campo, sembra calarsi nella parte con la determinazione di chi non ha (più) retropensieri. Per essere chiari: Draghi funziona se fa Draghi, forte della sua competenza e libero da condizionamenti. Convinto di giocarsi il destino del Paese, non la partita del Quirinale. Ed è logico che sia così: se fa bene non si vede perché dovrebbe lasciare il governo, se fa male non si vede perché dovrebbe salire sul Colle. Sicuramente non vorrà essere Monti, probabilmente non potrà essere Ciampi.
Ciò non toglie che Draghi resti comunque il portato migliore di una crisi di sistema irrisolta. Di quella crisi i partiti dovranno prima o poi farsi carico. Provando a ridefinire il dettato costituzionale, a costruire un nuovo assetto per le istituzioni e a ridefinire le regole del gioco elettorale. Se è vero che “l’unità non è un’opzione, ma un dovere”, il momento è questo. Sconfitta la pandemia, rilanciata l’economia, manca la politica. Anche in questo caso, dobbiamo sperare. E mi tornano in mente i versi di Franco Fortini: “Se sperando con te, dalle sere d’aprile verrà la gioia delle estati fedeli… e se i giorni persi a noi giusti torneranno liberi…”. Non chiediamo altro che questo, alla vita che verrà.
LA STAMPA
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