Quando l’America di Nixon scoprì l’ambientalismo

di Federico Rampini

NEW YORK.  Il movimento ambientale americano ha dei pionieri illustri: nell’Ottocento, Henry David Thoreau e John Muir furono tra i teorici di quello che allora si chiamava “conservazionismo”. Influenzarono i due presidenti-cugini, Theodore e Franklin Roosevelt, ambedue attivi nella creazione di parchi nazionali e nella tutela delle terre sotto giurisdizione federale. Ma l’ambientalismo moderno è una creatura degli anni Sessanta. Convergono a farlo nascere negli Stati Uniti tre fattori. In primo luogo alcuni episodi d’inquinamento grave (anche in seguito ai test nucleari) vedono reagire una società civile più sensibile. In secondo luogo, la rivoluzione culturale giovanile – culminata nella Summer of Love di San Francisco nel 1967 – ha una forte componente naturalistica, riscopre i “nativi” (quelli che un tempo chiamavamo indiani d’America) come un modello di attenzione all’ecosistema.

Nel parco. La folla nel primo Earth Day (foto: Lambert/Getty Images) 

In terzo luogo c’è il contributo degli scienziati: è nella seconda metà degli anni Sessanta che cominciano a maturare al Massachusetts Institute of Technology e in altre università d’eccellenza le teorie sui “limiti dello sviluppo”. Coincidono con scenari apocalittici – ispirati al pensiero malthusiano – sulla “bomba demografica” e l’impossibilità di sfamare un pianeta sovrappopolato; l’esaurimento irreversibile di risorse naturali; i danni dell’inquinamento per la salute.

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