Biden, il piano contro i paradisi fiscali: l’Italia dovrebbe rinunciare a 540 milioni per incassare 9 miliardi
Dove sono parcheggiati i profitti
Le multinazionali adottano sofisticate quanto legittime tecniche di elusione o di «tax planning», sfruttando le numerose scappatoie disseminate nel Codice fiscale americano. Inoltre, dallo studio condotto nel 2017 del «Congressional Research Service» il 43% dei profitti aziendali americani viene parcheggiato principalmente in cinque Paesi: Olanda, Lussemburgo, Svizzera, Irlanda, Bermuda. Ma la lista delle destinazioni più popolari, comprende anche Hong Kong, Cayman Islands, Mauritius, Panama, Costa Rica, British Virgin Islands, Channel Islands, Barbados, Cipro, Bahamas, Bahrain, Gibilterra, Malta e Antille Olandesi. Ecco le prime dieci in classifica (cifre aggiornate al 2017, fonte Itep): Apple, 246 miliardi di dollari; Pfizer 194 miliardi; Microsoft, 142 miliardi; General Electric 82 miliardi; Ibm 71,4 miliardi; Johnson &Johnson 66,2 miliardi; Cisco System 65,6 miliardi; Merck 63,1 miliardi; Google 60,7 miliardi; Exxon 54 miliardi. Denaro immobile e quindi improduttivo, di fatto una distorsione dell’economia.
La svolta epocale
La corsa al ribasso nella tassazione tra i diversi governi ha danneggiato tutti, ma per chiudere le vie di fuga e cancellare il dumping fiscale occorre che i Paesi più grandi tassino nella stessa misura gli utili realizzati all’estero dalle proprie compagnie. Il piano della Casa Bianca è infatti quello di stringere un accordo tra più Paesi possibile affinché quel 21% diventi l’aliquota della «global minimum tax». Sarebbe una svolta epocale negli equilibri finanziari mondiali e potrebbe segnare, di fatto, la fine dei paradisi fiscali. Su questo gli Stati Uniti intendono esercitare tutto il loro peso politico. La Segretaria al Tesoro ha inviato un documento di 21 pagine ai Paesi del G20 che, oltre agli Stati Uniti, comprende Cina, India, Brasile, Russia, Messico, Arabia Saudita, Germania, Regno Unito, Francia e Italia, cui spetta la presidenza per tutto il 2021. Il G20 è un interlocutore cruciale, perché esprime il 90% dei profitti globali delle imprese, pari a circa 3.780 miliardi di dollari (dati 2018). Yellen ha spedito anche una serie di slides all’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, con sede a Parigi: quest’ultimo dossier è ancora riservato, ma siamo in grado di rivelarne i contenuti di massima.
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Come funziona la tassa minima globale
Come funzionerebbe il nuovo meccanismo? Prendiamo come esempio Facebook che paga le imposte in diversi Paesi, tra i quali proprio l’Irlanda. La «formula Yellen» prevede che l’azienda fondata da Mark Zuckerberg dovrebbe corrispondere al fisco americano la differenza tra l’aliquota irlandese (12,5%) e quella Usa (21%). È chiaro che questo sistema scoraggia le multinazionali americane a spostare i profitti altrove: alla fine il carico fiscale sarebbe comunque pari al 21%. Yellen calcola che in questo modo le casse federali potrebbero recuperare almeno 50 miliardi di dollari all’anno. Ma anche altri Stati potrebbero riportare a casa il dovuto, visto che il totale della tassazione elusa dalle corporation di tutto il mondo è stimato in 240 miliardi di dollari.
Il recupero per l’Italia: 8-10 miliardi
Tommaso Faccio, docente di diritto tributario all’Università di Nottingham (Gran Bretagna) e Segretario dell’Icrict, Independent commission for the reform of international corporate taxation, organismo di cui fanno parte economisti come Joseph Stiglitz o Thomas Picketty, ha elaborato i dati Ocse su ogni singolo Paese. L’Italia, per esempio, applicando la global minimum tax su tutte le multinazionali tricolori che spostano parte dei profitti in Lussemburgo, Olanda o altri paradisi (da Eni, Enel, Intesa, Generali, Armani, Ferrari, Webuild, Telecom Italia ecc) recupererebbe tra gli 8 e i 10 miliardi di dollari l’anno.
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Che fa Biden con il Delaware?
L’Amministrazione Biden sarà però chiamata a una prova di coerenza. Da decenni, all’interno degli Usa sono tollerati alcuni dei paradisi fiscali più efficienti nel mondo. Il caso più macroscopico è il Delaware, lo Stato che Joe Biden ha rappresentato per 36 anni al Senato: garantisce l’anonimato ai proprietari delle cosiddette scatole cinesi e non tassa i profitti derivati da royalties, copyrights, marchi commerciali e così via. Chuck Collins, un’autorità in materia, calcola che negli ultimi dieci anni nel Delaware circa 9,6 miliardi di dollari siano sfuggiti al regime fiscale in vigore nel resto degli Stati Uniti. Il 1 gennaio 2021 il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il «Corporate Transparency Act» che almeno impone a tutte le società di rivelare l’identità degli azionisti. Naturalmente sono previste numerose eccezioni, fra cui i trust costituiti dalle famiglie. Per limitare con correttivi federali le agevolazioni fiscali adottate dal Delaware e da qualche altro Stato, come il South Dakota, il Senatore Bernie Sanders e il deputato californiano Ro Khanna hanno messo in campo due progetti di legge. Vedremo se saranno appoggiati dagli altri compagni di partito e dalla Casa Bianca.
Da decenni, all’interno degli Usa sono tollerati alcuni dei paradisi fiscali più efficienti nel mondo
Il silenzio di Regno Unito e i paradisi Ue
Alcuni grandi Paesi dovranno, poi, rivedere il rapporto con le Isole su cui esercitano una sovranità diretta. Per gli Stati Uniti si pone la questione delle Us Virgin Islands, per il Regno Unito quello delle Isole Cayman e delle isole del Canale. Al momento non se ne parla. Discussione complicata anche all’interno della Ue: difficile far cambiare idea a Paesi come Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Ungheria, Malta, Cipro che hanno impostato un’intera politica economica e finanziaria sulla «tassazione agevolata». Ma se il piano Biden-Yellen riesce ad includere i grandi Paesi da tempo massacrati da questa competizione, potrebbe comunque renderli non più convenienti.
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La contropartita : eliminare la web tax
Ma come si recuperano le imposte sui profitti dai giganti del web, che sono tutti americani, e non lasciano nulla nei paesi in cui operano? La soluzione trovata è la famosa «web tax», già operativa in Francia, Austria, Regno Unito, e da quest’anno anche in Italia. Una tassa che ha innescato un aspro scontro tra Ue e Usa: Trump aveva minacciato dazi sull’importazione di merci europee. Ora Yellen, nelle schede riservate recapitate all’Ocse, dice: «trasformiamola in un prelievo da applicare non solo ai monopolisti del digitale, ma alle 100 multinazionali con il fatturato mondiale più alto e con un utile pari ad almeno il 10%». Quindi anche le farmaceutiche, petrolifere, telecomunicazioni, e una parte di questi profitti globali (l’entità esatta non è ancora precisata) potrà essere tassata negli Stati in cui operano le aziende, in proporzione al fatturato realizzato. Ovviamente in aggiunta a quello che già pagano, ma che ora esclude tutta la parte immateriale derivante da marchi, brevetti, ecc, piazzata dove conviene di più. Il piano prevede che le stesse multinazionali non potranno sottrarsi a una ferrea trasparenza: dovranno dichiarare all’Ocse e alle singole agenzie fiscali nazionali dove e quanto fatturano all’estero. In sostanza: «appoggiate il piano della global minimum tax e facciamola finita con la web tax».
Il conto per l’Italia
Ogni singolo governo dovrà fare bene i conti. Per l’Italia il gettito calcolato per il 2020 della «web tax» da versare il 16 maggio è pari a 587,6 milioni di euro. L’anno prossimo dovremmo rinunciarci, se ci accordiamo sulla «global minimum tax», perché è un unico pacchetto. Proviamo a spiegare con un esempio, utilizzando ancora le analisi di Tommaso Faccio. Nel 2019 Facebook da sola ha realizzato in Italia un fatturato di circa 900 milioni di euro, a fronte dei 50 miliardi di euro su scala mondiale, con utili per 23 miliardi. Il margine di profitto, dunque, è stato pari al 46%. Sempre in quell’anno ha versato 2,3 milioni di euro di tasse in Italia. Se fosse stata già in vigore la «web tax», con aliquota del 3% sul fatturato, Facebook avrebbe dovuto pagare 27 milioni di euro. Se invece applichiamo la «formula Yellen», l’imposta sulle attività italiane di Facebook sarebbe pari a 8 milioni di euro. Cioè quasi quattro volte più di quanto ha effettivamente versato nel 2019, ma tre volte meno rispetto alla «web tax». Conviene? Vista così no.
Per l’Italia il gettito calcolato per il 2020 della «web tax» da versare il 16 maggio è pari a 587,6 milioni di euro
Usa: il banco vince sempre
L’amministrazione Biden garantisce che la misura avrà la stessa portata della «web tax», ma è una strategia che oggettivamente porta alle casse del governo americano i profitti dei più grandi colossi mondiali (Apple, Google, Microsoft, Amazon, Netflix, Facebook), lasciando agli altri le briciole. Proviamo a riassumere: adottando il piano Biden-Yellen, come abbiamo visto dai dati dell’Icrit, il fisco italiano potrebbe incassare ogni anno dalle sue multinazionali tra gli 8 e i 10 miliardi di dollari. Rinunciando ai 570 milioni di web tax, in teoria potremmo portare a casa più o meno la stessa cifra: anziché solo i giganti del digitale, verseranno anche Pfizer, Nestlè, Wolkswagen ecc. Ma non è detto, i conti li sta facendo l’Ocse. È la soluzione migliore? Forse no, però dopo tante chiacchiere è il primo passo concreto per tagliare le gambe ai paradisi fiscali. Non è più tollerabile accumulare immensi patrimoni senza contribuire alla prosperità dei Paesi in cui sono stati realizzati. È su questo tema che il prossimo 9 luglio, a Venezia, il G20 dovrà trovare un accordo.
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