Covid, in India i morti «sono più del doppio di quelli ufficiali»: ecco perché la strage ci riguarda (molto) da vicino

1. I numeri (contraffatti) dell’emergenza indiana

Prima di analizzare i due aspetti di questa «prossimità» dell’evoluzione pandemica indiana a (quasi) tutti i Paesi — la nuova variante del genoma virale e l’impasse vaccinale — sarà utile vedere da vicino i «numeri», per distinguere tra un’allerta effettiva e un eventuale «procurato allarme».

A lungo (si veda di nuovo la curva), l’India ha avuto numeri relativamente contenuti di contagi e soprattutto di decessi, tanto da facilitare la citata gestione mistico-populista di Modi. Questo è dipeso — e in larga misura ancora dipende — da vari fattori sovrapposti: climatico-geografici (l’assenza di rigidità e basse temperature); demografico-anagrafici (un’età media della popolazione molto diversa da quella occidentale, col 35,7% compreso tra 0 e 19 anni e solo il 6,6% di over-65) e molto probabilmente, di genetica popolazionale, dato che l’India non rientra nei Paesi a dominanza dell’aplogruppo R1b sul cromosoma Y — in particolare della subclade R1b-s116 —, dominanza che investe diversi altri Paesi (da quelli «ispanici» a quelli anglosassoni) e che parrebbe spiegare tanti aspetti clinici, dalla prevalenza di contagi maschili all’esposizione verso la forma severa. Anche se questo versante dovrà essere via via molto approfondito.

Persino adesso, i dati — pur pesantissimi — non sembrerebbero tragici in assoluto. Certo, i picchi dell’altro ieri (352.991 contagi e 2812 decessi, appena temperati da quelli ieri, con 319.445 e 2764) sono oggettivamente frastornanti, sia perché parliamo di ben oltre il 50% dei nuovi casi globali al giorno, sia perché, ad esempio, domenica nella capitale i positivi erano oltre il 25% dei testati.

Ma considerando il rapporto complessivo tra contagi (oltre 17 milioni e mezzo) e decessi (197.880) otteniamo un tasso di letalità dell’1,1, marcatamente più basso rispetto a Messico (col tetro primato del 9,2), Perù (3,3) Italia (3,0), Brasile (2,7) e Usa (1,8).

Il punto — dando per scontato come la curva in corso sia lontana dal flettersi e quindi destinata a peggiorare quei numeri — consiste però nella drastica sottostima sia di contagi (il che vale, con notevoli difformità, per ogni Paese) sia di decessi, che secondo studi condotti dall’epidemiologa Bhramar Mukherjee (Università del Michigan) ammonterebbero da 2 a 5 volte quelli registrati.

Un recente, dettagliato articolo del New York Timesrisale all’origine della contraffazione, con molti esempi area per area: ad Ahmedabad, Stato di Gujarat, India occidentale (dove i «terreni di cremazione» sono attivi 24 ore su 24 «come un impianto industriale») un addetto, Suresh Bhai, confessa di regestare i decessi sotto un generico «beemari» o «sickness» (malattia) per ordine tassativo del «boss»; e a Bhopal, grande città del Madhya Pradesh celebre per l’«incidente chimico» del 3 dicembre ’84, gli ufficiali sanitari hanno riportato su 13 giorni di aprile 41 decessi per Covid, ma un accertamento dello stesso NYT sui luoghi di sepoltura (dove i corpi vengono classificati sotto protocolli rigorosi) ne ha registrati, per lo stesso periodo, più di 1000.

Del resto, a queste alterazioni — imposte per «non alimentare il panico» non solo dal governo di Modi, già al centro di uno scandalo nel 2019 per aver taroccato le cifre sui disoccupati, ma anche dall’opposizione, come nel Chattisgarh — i cittadini reagiscono in modi opposti. Alcuni le trovano «illegali» e «conniventi» (così Dipan Thakkar, fratello minore di una 48enne uccisa dal COVID in un ospedale privato di Ahmedabad, la cui morte viene ricondotta ad «arresto cardiaco»); altri, invece, le trovano protettive, adducendo loro stessi cause di morte diverse dal Covid e sperando in cremazioni-sepolture più discrete, appartate e dignitose: la cremazione è nel rituale indu, ricordiamo, la liberazione dell’anima dal corpo.

2. Il «peso» della variante indiana sul mondo

Abbiano già chiarito diverse volte (ad esempio qui) come ogni agente patogeno, virus in primis, produca incessantemente «a monte», cioè «a prescindere», mutazioni casuali in grado di anticipare gli stimoli ambientali e quindi di generare varianti che soppiantino le precedenti, in quanto più efficienti a livello di trasmissibilità e replicazione. Sottoposte a diversi livelli di «pressione selettiva» (la coevoluzione col genoma dell’ospite; la risposta immunitaria dello stesso, naturale o indotta dal vaccino; il numero decrescente di suscettibili), quelle varianti sono come funghi in un bosco dopo il temporale: e in quanto tali, sono risposte «strutturali» cui ha poco senso conferire (se non per convenzione) tratti nazionali.

Anche se, ovviamente, nel momento in cui affiorano, è giusto che Paesi non ancora raggiunti da una o più varianti cerchino di proteggersi (per esempio controllando-quarantenando i rimpatri), anche solo per prendere tempo rispetto a una campagna vaccinale in corso.



La variante «indiana» o B.1.617 (scopetta nel Maharashtra già il 5 ottobre 2020) è solo l’ultima in ordine di apparizione in Occidente (nel Regno Unito il 22 febbraio) dopo l’«inglese», la «sudafricana», la «brasiliana» e la «nigeriana».

Delle sue 13 mutazioni, ne vengono monitorate soprattutto 3, tutte sulla proteina spike, cioè la proteina, ricordiamo, che protrude nelle nostre cellule attraverso i recettori ACE2 e su cui tutti i vaccini costruiscono la risposta e la memoria immunitaria. Le prime due sono E484Q (simile alla nota E484K della «sudafricana» e della «brasiliana») e L452R (già vista nella variante «californiana») incidono sia sull’affinità-efficienza del legame tra spike e recettore ACE2 che sull’evasione della risposta immunitaria: la novità è trovarle per la prima volta associate in uno stesso lignaggio, con un evidente effetto di potenziamento.

La terza, P681R, secondo l’eminente scienziato William H. Haseltine favorirebbe invece (come già P618H nell’«inglese») il legame tra i due domini della spike (S1 e S2, quello del recettore e quello «terminale») acuendo a sua volta la velocità e l’efficienza di ingresso nelle nostre cellule.

Al momento — in attesa di approfondimenti — non sembra che i vaccini vengano «aggirati» da B.1.617: uno dei pochi studi, israeliano, registra un depotenziamento del vaccino Pfizer-BioNTech, come già se ne erano registrati per altri vaccini rispetto alle altre varianti. Ma depotenziamento, è bene ricordarlo, non significa inefficacia, perché il vaccino continua a proteggere dalla forma severa della malattia e a contrastarne la trasmissione. Per diventare inefficace, infatti, un vaccino dovrebbe incontrare un virus il cui genoma fosse mutato al punto da aver reso obsoleti i bersagli rilevanti della sua azione (ceti specifici epitopi, ovvero le regioni degli antigeni riconosciute dagli anticorpi).

È quello che avviene con l’influenza, come dimostra l’annualità del vaccino relativo; ma che non è avvenuto (non ancora) con SARS-CoV-2.

Il problema, semmai, consiste dunque proprio nel fatto che si vaccini troppo poco o in maniera incompleta.

In India, B.1.617 può proliferare con questa intensità soprattutto perché è vaccinato solo il 10% della popolazione; né, per la verità, le prospettive a breve-medio termine sembrano migliori, se si prevede una copertura del 40-50% per Natale.

Nel Regno Unito, invece, la preoccupazione è legata a una copertura imponente di prime dosi (più di 33 milioni, oltre il 50% della popolazione) ma relativamente bassa di richiami (comunque più di 10 milioni), il che offre meno garanzie rispetto a una variante così aggressiva, dato che la risposta immunitaria è meno robusta e specifica.

E in generale, in diversi Paesi si teme non solo l’insufficiente copertura vaccinale, ma anche la possibilità di reinfezioni (di aggiramento delle difese «naturali» secondo il citato effetto-Manaus, l’incubico «giorno della marmotta» nel film Ricomincio da capo.

3. Il ruolo mondiale del Serum Institute e le conseguenze sui vaccini

L’ascesa dell’India alla leadership mondiale della produzione vaccinale è dipesa da diversi fattori in diversi momenti storici. A tacere della nota «predisposizione al pensiero astratto» (alla matematica e poi all’informatica, determinato anche dalla particolarità del pensiero umanistico-religioso) e della «familiarità» ancestrale del Paese con eventi epidemico-pandemici di lunga durata (dal colera — che origina nella valle del Gange — alla peste e alla Spagnola, cui l’India tributa dai 12 ai 15 milioni di morti, primato globale) incidono soprattutto due sequenze.

La prima (a mo’ di imprinting) vede transitare nella Bombay coloniale di fine ‘800 — all’inizio dell’ultimo «ciclo» di peste — diversi scienziati decisivi nella sconfitta della malattia: Alexandr Yersin, uno degli scopritori dell’agente patogeno; Paul Louis Simond, allievo di Pasteur che individua nella pulce del ratto il «vettore» di contagio; e Waldemar Haffkine, che produce un primo, rudimentale vaccino (con pesanti effetti collaterali).

La seconda ci porta agli anni ’60 del secolo scorso, quando l’India si specializza nella produzione di farmaci generici, «piratandone» i brevetti occidentali e distribuendoli — a basso costo — soprattutto ai Paesi sottosviluppati: è in quel periodo e in quel contesto (per l’esattezza nel 1966 a Pune, proprio nel Maharashtra) che nasce il monumentale Serum Institute of India (SII), fondato da Cyrus Poonawalla.

L’SII è infatti — e sarà ancora — uno dei gangli biotech-chiave nella risoluzione della pandemia in corso.

All’Istituto si producono quantità consistenti (decisive) sia di vaccino «domestico» (Covaxin), sia — soprattutto — di quelli su brevetto da partnership con AstraZeneca (localmente chiamato Covishield) e con l’americana Novavax, per centinaia di milioni di dosi; e c’è anche un accordo con l’Istituto russo Gamaleya per la produzione di 200 milioni di dosi di Sputnik V.

Ora, però, l’Istituto è in crisi se non «in blocco»: le esportazioni di AZ, ad esempio, sono passate dai 60-70 milioni al mese tra gennaio e marzo (sui 100 posti come obiettivo, ma comunque risolutivi per la campagna britannica) ai miseri 1,2 di aprile; mentre il citato piano COVAX è in ritardo drammatico, con sole 28 milioni di dosi «di febbraio» consegnate a fine marzo e nessuna traccia dei 90 promessi per marzo (40) e aprile (50). È un impasse non riconducibile solo all’incidenza della variante e all’emergenza in corso, che pure ha costretto l’Istituto a destinare 65 milioni di dosi alla «priorità interna» (si sta cercando di vaccinare anche gli over-45); ma anche — come ricorda il ceo Adar Poonawalla, figlio di Cyrus — all’interdizione delle esportazioni Usa dei strumenti e materiali necessari alla produzione (pompe speciali, unità di filtraggio, mezzi di coltura cellulare, tubi monouso, prodotti chimici specifici,) secondo i termini del Dfa (Defense Production Act) che può limitare in certi periodi le esportazioni di manifatture destinate a «bisogni nazionali».

L’Amministrazione Biden ha deciso in quel senso a febbraio: ma in queste ore potrebbe sospenderla, con beneficio non solo per l’SII, ma anche per altre biotech indiane come Bharat Biotech (accordo col governo per 10 milioni d AZ) o Bilogical E., che sta producendo il vaccino Janssen (Johnson & Johnson).

È un domino- un labirinto- che ci ricorda per inciso come nell’analisi della cosiddetta «guerra geopolitica dei vaccini» sia stato troppo disinvoltamente rimosso uno dei fattori dirimenti: i limiti (o le difficoltà) di produzione, che si traducono nell’attuale squilibrio tra una domanda altissima e un’offerta fatalmente carente.

Si torna così all’effetto-farfalla: il deficit produttivo di AZ al Serum Insititute si sta riverberando su tante campagne vaccinali, compresa quella italiana, tanto da rendere in parte velleitarie, in questa prospettiva, rivendicazioni «giuridiche» sul ritardo di consegne; e il naufragio del piano COVAX (con le vaghezze di un improbabile «aiuto cinese» annunciato dal portavoce Esteri Wang Wenbin come nota grottesca e irritante) potrebbe costare un ulteriore, indefinito prolungamento pandemico.

Intanto, l’India attraversa sequenze estreme: il New York Times riferisce di come a Surat, città industriale sempre del Gujarat, le cremazioni ininterrotte (124 quando il limite è di 73) abbiano portato l’acciaio delle graticole a fondersi; e di come a Kanpur, Uttar Pradesh, ormai si brucino cadaveri nei parchi cittadini.

Contribuire a dissolverle forse non sarà un imperativo morale; lo è sicuramente per il nostro «gene egoista», se non vogliamo che quel prolungamento diventi da una possibilità una certezza.

CORRIERE.IT

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