Brunetta: «Rimuoviamo il blocco delle lobby. Con la Ue un contratto di sei anni»

«Potrebbe durare anche dopo, eh».

Un governo Draghi anche dopo il 2023?

«E perché no?»

Per quel che si sa, Draghi non vuole scendere in politica.

«È già sceso in politica: è presidente del Consiglio. E in ogni caso il programma del Recovery è di sei anni e vincola anche il prossimo governo. È un contratto. Il piano europeo e gli accordi conseguenti sull’indebitamento, le risorse proprie del bilancio di Bruxelles e il resto sono un contratto con l’Europa che va oltre questa legislatura».

I sovranisti dicono: allora far votare i cittadini alle politiche non serve più, perché chiunque vinca dovrà fare quel che si è già deciso altrove. Sbagliato?

«I governi sono tenuti a rispettare i contratti, così come devono onorare i titoli di Stato».

Carlo Bonomi, il presidente di Confindustria, apprezza il piano ma lamenta che manchi un coinvolgimento delle imprese.

«Questo è un impianto di grandi riforme che aggrediscono antiche debolezze italiche, con accanto tanti soldi, in un “dopoguerra da pandemia”. La crescita aggiuntiva garantita dal Piano non sta solo nello 0,5% di capitale pubblico più 0,3% di riforme, ma in tutto il capitale privato da metterci grazie allo spazio regolatorio che finalmente stiamo creando, sbloccando i colli di bottiglia che hanno soffocato investimenti e crescita».

Gli italiani e la stessa classe politica lo hanno capito?

«Quel che so è che il precedente impianto del Recovery era: tanti soldi, con una paginetta di riforme. Adesso il disegno è capovolto e richiede un’Italia nuova. Non possiamo tornare a farci piccoli dispetti per rosicchiare qualche decimale di consenso istantaneo, quando nei prossimi mesi in Parlamento dovremo mettere mano a riforme fondamentali della macchina dello Stato, nell’interesse dei cittadini e delle imprese. Bisogna abbandonare l’approccio del “cosa c’è per me”, che fa partire subito un conflitto tra corporazioni. Questo non è un fondo da cui si fa tiraggio, non è un meccanismo del “quanto c’è per me”».

Dunque come va letto il Recovery?

«Come un’enorme quantità di risorse condizionate alle riforme. Il gioco è completamente diverso. Anche il Piano Marshall fu così: un grande aiuto dopo una catastrofe, che contribuì a formare un clima nel quale il conflitto distributivo si risolse e il Paese potè crescere. Possiamo aprire una finestra di almeno 5 anni di riforme strutturali, sciogliendo nel Recovery tutti i grumi di interessi che bloccano il Paese. Giustizia, pubblica amministrazione, concorrenza, fisco. Sono tutte facce della stessa medaglia. Ma possiamo sciogliere questi egoismi grazie all’unità nazionale e al catalizzatore dei soldi. E questo nonostante le corporazioni e le lobby».

Perché, si sciolgono anche quelle?

«No, continuano a esserci. Ma sono rese impotenti. E questo fenomeno si chiama momento Italia. Ricordo tra l’altro che il 9 maggio inizia la Conferenza sul futuro dell’Europa e con Draghi possiamo giocare un ruolo centrale. La domanda è: dopo il momento Merkel, dove vogliamo andare?».

Parlando di riforme, quando arriva il decreto Semplificazioni?

«Siamo quasi pronti, dobbiamo approvarlo entro metà maggio. È la madre di tutte le battaglie, innesco anche per le altre riforme. Ci stiamo lavorando da oltre due mesi con tutti i ministri. Io sto facendo istruttorie approfondite e non saranno misure una tantum, ma con cadenza annuale. Ovviamente non è semplice perché la complessità delle procedure non è mai frutto del caso. Ma occorre essere chiari: perdere questa occasione vuol dire non essere in grado di ripagare il debito pubblico accumulato per far fronte alla pandemia e perdere qualsiasi credibilità nei confronti dell’Europa e del mondo. Non potremmo mai perdonarcelo. Come ha ricordato il presidente Draghi, il nemico è la stupidità. Ora serve tutta l’intelligenza, individuale e collettiva, di cui siamo capaci».

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