Lo Stato e lo spirito di parte

È a questo punto che avviene qualcosa davvero singolare. I due presidenti delle Camere Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, investiti della questione, decidono infatti di spogliarsi dei propri poteri. Invece di invitare il senatore Volpi a lasciare il suo posto a un presidente designato da Fratelli d’Italia decidono di non decidere e rimandano la palla ai partiti: se la vedano tra loro e cerchino loro un accordo. Che però, data la natura della disputa dove un compromesso è palesemente impossibile, naturalmente non si trova. E così, nonostante la lettera della legge, nonostante pareri di una schiera di costituzionalisti dei più vari orientamenti ma dal primo all’ultimo favorevoli all’avvicendamento, nonostante la moral suasion esercitata, pare, dalle sedi più autorevoli, nonostante tutto, da settimane la questione è ferma lì e il Copasir è di fatto paralizzato. Ancora una volta sul senso dello Stato e delle istituzioni ha prevalso insomma lo spirito fazioso dell’appartenenza. Oltretutto da parte di chi era meno ragionevole aspettarselo.

Vengo al secondo caso, che riguarda la Lega. Il cui segretario, come si sa, è stato rinviato a giudizio davanti al tribunale di Palermo a causa del divieto di sbarco da lui ordinato come ministro degli Interni, nel 2019, nei confronti di un gruppo di naufraghi raccolti dalla nave di una ong, la «Open arms». Uno dei pilastri argomentativi dell’accusa, ampiamente riportato dai giornali, è che Matteo Salvini nel prendere la decisione di cui sopra sarebbe stato mosso da ragioni politiche e non già per difendere un interesse dello Stato: parole più o meno riprese letteralmente da moltissimi giornali e notiziari radiotelevisivi.

A me pare un argomento che suscita molte perplessità. Infatti, se da parte del Salvini ministro c’è stata una violazione comunque dimostrabile e palese di qualche disposizione di legge, è fin troppo ovvio che egli vada portato in giudizio e condannato. Ma se in un qualunque modo viene in ballo invece una questione di discrezionalità (la legge gli dava il potere di decidere in un modo o in un altro) e/o di motivazioni (che cosa è che lo ha spinto a decidere come ha deciso?), allora la distinzione fatta dai magistrati tra ragioni politiche e interesse dello Stato è difficilmente sostenibile.

Per il semplice fatto che in un regime democratico parlamentare «l’interesse dello Stato» — a meno che qualche legge o la Costituzione non indichino chiaramente quale esso sia, che cosa debba intendersi con tale espressione — di per sé non esiste. In una democrazia come la nostra l’interesse dello Stato è quello che ogni maggioranza parlamentare e ogni ministro che ne fa parte reputa che esso sia. Coloro che governano, infatti, vengono eletti da una parte, sono esponenti di un partito, ma se possono contare su una maggioranza parlamentare il loro punto di vista — ripeto: politico di parte — per ciò stesso diviene legittimamente il punto di vista generale, diviene, se proprio vogliamo usare questa espressione, l’interesse dello Stato. Era un «interesse dello Stato» usare l’aviazione italiana per azioni di bombardamento in Kossovo come fece a suo tempo il governo D’Alema? È un «interesse dello Stato» che si costruisca una linea di alta velocità tra Torino e Lione? Se ne può discutere all’infinito, ma quel che conta è che chi ha preso quelle decisioni aveva il diritto di farlo dal momento che non c’era alcuna legge che lo vietava esplicitamente. Se nel caso di Salvini invece c’è, allora basta e avanza; sennò no. E tirare in mezzo l’interesse dello Stato serve solo a confondere le idee.

CORRIERE.IT

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