Gentiloni (commissario Ue agli Affari economici) al Messaggero: «L’Italia cresce più del previsto»

La presenza di Draghi costituisce un’evidente garanzia agli occhi di Bruxelles. Il Financial Times è arrivato a scrivere che l’Italia da “delinquente” è diventata un modello. Non so se considerarlo esattamente un complimento, lei come l’ha letto?
«Certamente ho trovato la parola usata in quel titolo sgradevole. Ciò detto, la reputazione di Draghi costruita sul ruolo che ha svolto nella crisi precedente di fatto consentendo di salvare la moneta unica, aiuta in queste circostanze il nostro Paese. Sarebbe stato molto più difficile giocarci l’intera posta senza la sua leadership. Ciò premesso, non renderemmo un buon servizio a Draghi dipingendolo come l’uomo dei miracoli. L’impresa di portare a termine le riforme deve essere vissuta come una missione comune tra le forze politiche e sociali, tra le autorità centrali e territoriali. Se invece si cadesse nella tentazione di considerare il piano una sorta di mega finanziaria, in cui ciascuno cerca il proprio tornaconto da sbandierare, l’Italia non andrebbe molto lontano».

Ma agli occhi dell’Europa la credibilità dell’Italia è tutta e solo nelle mani di Draghi o qualcosa è cambiato più in generale? Anche perché il piano prevede una durata di sei anni che va ben oltre la legislatura e lo stesso governo Draghi…
«L’Italia è sempre stata un Paese importante, rispettato anche nei momenti più difficili. Ha avuto una sbandata con un governo che nel 2018 si è presentato come quasi ostile verso l’Unione, ma quella deviazione è rientrata abbastanza rapidamente. C’è poi da considerare il fattore Brexit, che ha portato l’Italia ad essere la terza economia dell’Ue. E la stessa instabilità politica che per anni ha caratterizzato il nostro sistema, è diventata una caratteristica piuttosto diffusa in Europa. Per non parlare dell’esaurirsi della leadership della Merkel, che della vecchia Europa è stata un punto di equilibrio che ora viene meno. Tutto questo per dire che il ruolo dell’Italia si rafforza e il fatto che in questo momento storico l’Italia sia rappresentata da una personalità come Draghi, ovviamente ci dà una responsabilità maggiore».

L’Italia è stata tra i primi paesi a consegnare il Piano. Ma altri Stati non l’hanno ancora ratificato, e senza ratifica non è possibile emettere gli eurobond necessari a costituire la provvista. Tanta puntualità per una volta è stata inutile?
«No. Perché non è solo un distintivo di cui fregiarsi ma è la premessa, se le ratifiche andranno in porto nei tempi auspicati, per poter avere prima della pausa estiva la prima tranche di finanziamento del 13%, che nel caso italiano è una ventina di miliardi. Naturalmente non è un problema di cassa ma di certezza a tutto il sistema che il piano sta progredendo».

Ora sta alla Commissione reperire sui mercati questa mole di denaro. 
«Non nutro alcun dubbio che sarà un successo. Abbiamo raccolto quasi 100 miliardi di debito comune per il meccanismo Sure che finanzia schemi nazionali come la cassa integrazione, e la domanda dei nostri bond europei è stata 15 volte l’offerta. Lo stesso sono sicuro avverrà quando faremo gli eurobond per il Recovery. L’incognita semmai sono i tempi di ratifica: mancano ancora 8 Paesi e in alcuni di questi non mancano le difficoltà, penso alla Finlandia, ma mi auguro che vengano superate al meglio».

In Italia resta ancora da sciogliere il nodo della governance. Riusciremo a spendere tutte le risorse messe a disposizione o teme che le pastoie burocratiche, i vincoli, le lentezze degli enti locali possano frenare i progetti?
«Primo, la parola governance non aiuta a capire di cosa stiamo parlando. C’è una responsabilità politica, che sarà di palazzo Chigi, del Mef e dei vari ministeri. Con il controllo del Parlamento. Poi c’è il problema delle procedure. E questa è una delle sfide più difficili. L’Italia è penultima tra i grandi paesi come capacità di assorbimento delle risorse europee. I fondi europei, di norma cofinanziati, restano lì: se fai tardi, vieni rimproverato ma le risorse non le perdi. Nel caso del Recovery, rischi la cancellazione di intere rate di questa enorme provvista finanziaria. Quindi occorre intervenire sulle procedure, introducendo modalità straordinarie, corsie preferenziali, semplificazioni, ed è esattamente quello che so che il governo sta facendo, per rendere l’assorbimento di questo ammontare di risorse nei tempi previsti, possibile».

Che il patto di stabilità, ora sospeso, non potrà tornare lo stesso di prima, ormai lo dicono un po’ tutti in Europa. Serve un tagliando dunque, ma in quale direzione? E, visti i gravi errori commessi in passato, con quale flessibilità?
«Farò alcune proposte alla Commissione verso la fine di quest’anno: abbiamo bisogno che intanto il Recovery decolli e che vi sia maggiore certezza sulla ripresa. Le cose sono molto cambiate da quando il Patto è stato stabilito e non possiamo guardare agli anni Venti con gli occhi di 15 anni fa: il debito medio è al 100% del Pil ed era vicino al 60 all’epoca di Maastricht, abbiamo un’enorme necessità di investimenti se prendiamo sul serio la transizione ambientale e la resilienza; abbiamo tassi di interesse che erano in media al 4% e ora intorno allo zero. Questo diverso mondo è la base per modificare le nostre regole comuni, conservando la necessità di avere però regole comuni. Si tratta di far diventare la qualità della crescita un pilastro almeno altrettanto importante quanto la stabilità finanziaria». 

Possiamo dire che la stagione del rigore ormai è archiviata, dunque?
«Nella mia testa sicuramente. Non sarà facile, però, come non è stato facile arrivare a un’intesa sul debito comune per il piano di Recovery: ci sono anche Paesi che pensano che si dovrebbe tornare dopo questa crisi alle regole precedenti. Io penso invece che abbiamo un’occasione storica visto che per la prima volta la Commissione dispone non solo di regole comuni ma anche di miliardi comuni, una bella differenza».

Presidente Gentiloni, la Russia ha vietato a Sassoli e altri sette esponenti Ue l’ingresso nel Paese come ritorsione sul caso Navalny. Un episodio destinato a cambiare gli equilibri tra Unione e Mosca?
«E’ grave che la Russia prenda di mira le istituzioni europee. Una cosa irragionevole che merita una risposta, che ci sarà».

Di cosa stiamo parlando, presidente? Nuove sanzioni?
«E’ una valutazione che stiamo facendo. Le istituzioni Ue meritano rispetto anche quando come nel caso Navalny esprimono opinioni non gradite al Cremlino».

Mosca rischia di ritrovarsi isolata?
«Abbiamo molte relazioni economiche e commerciali con la Russia. E’ chiaro che in questa partnership l’Ue non è il junior partner».

Un’ultima domanda, presidente, sul fronte Covid. Pensa che Bruxelles si sia mossa con la stessa determinazione? Il contratto con AstraZeneca si è rivelato pieno, come minimo, di lacune. Non tutti i paesi procedono alla stessa velocità sui vaccini. E’ ipotizzabile una sterzata dell’Unione sulla lotta alla pandemia nel secondo semestre?
«Non posso immaginare in che situazione ci troveremmo se non avessimo scelto di acquisire e distribuire in comune i vaccini. Ci troveremmo in guerre o guerricciole tra Paesi europei, guerre di cui beneficerebbe alla grande la propaganda esterna all’Unione, sarebbe una festa per il mercato nero e non certamente una garanzia per la salute dei nostri concittadini. L’Ue ha recuperato un ritardo iniziale, siamo il maggior esportatore di vaccini verso i Paesi poveri e emergenti, cosa questa che non solo ci porterà un tornaconto nei rapporti politici ed economici ma ancor prima un beneficio alla nostra salute. Mi lasci però aggiungere una considerazione più generale. I vaccini sono un buon esempio di una situazione in cui, giustamente, per i ritardi iniziali si è puntato il dito contro la Ue, salvo poi rendersi conto che questa dimensione europea era indispensabile, tanto che la Merkel ha proposto addirittura di adottare una politica comune della sanità. In fondo, questa pandemia ha rimesso in discussione tante velleità nazionaliste. Il 2020 sarà ricordato come l’anno in cui in molti casi l’Unione europea è passata dall’essere considerata un problema ad essere vista come parte della soluzione del problema. Anche in Italia non si chiede meno Europa ma al contrario si chiede all’Ue di fare di più».

IL MESSAGGERO
 

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