Cottarelli: “I tribunali come aziende, ecco il piano. È l’ora di manager e premi di produttività”
Intanto anche il governo lavora alle riforme della giustizia.
«Premesso che la ministra Cartabia ancora non ha scoperto le sue carte, e che i tavoli tematici al lavoro presso il ministero della Giustizia hanno davanti almeno altri 10 giorni, sì, noi abbiamo messo in conto che servono riforme strutturali che certo non sono nell’orizzonte di una maggioranza dove convivono un centrodestra e un centrosinistra che su queste tematiche difficilmente potranno trovare un accordo».
E allora, professor Cottarelli, queste vostre proposte resteranno un bel progetto su carta oppure pensa che vedranno mai la luce?
«Dipende. Mi sono convinto che una riforma può essere realizzata solo se ha dietro l’opinione pubblica. In fondo, è lo stesso problema che c’è con il Recovery Plan, o meglio il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il Governo Draghi lo ha impostato. Ma siccome questo Governo non nasce sulla base di un consenso e di un programma, cioè di un chiaro mandato elettorale, se poi queste riforme verranno realizzate oppure no si vedrà nei prossimi anni. Nei fatti l’opinione pubblica ancora non si è espressa; lo farà con il voto. E a quel punto sapremo anche che fine faranno queste riforme».
Ci sono anche idee stranianti, tipo accogliere nella magistratura giudicante un certo numero di avvocati di chiara fama e senza passare per il concorso.
«Se si guarda alle singole proposte, una potrà piacere meno, una di più. Il metodo che ci siamo dati è questo: ai nostri tavoli si confronta una larga schiera di esperti, non tutte le riforme sono come le avrei scritte io, e non ci sono tutte le riforme che io avrei voluto. Ma è giusto così. Tutti hanno dovuto cedere qualcosa».
Più in dettaglio, prevedete una serie di riforme molto puntuali. Per il penale, ritorno alla prescrizione e grande attenzione alle garanzie. Per il civile, ricorso a un rito unico, taglio delle udienze, poteri più penetranti al giudice.
«Sono riforme che ci chiedono gli organismi internazionali. E si consideri che la lentezza dei processi è un grave problema per l’economia italiana. Non è questione di un punto in più o in meno del Pil. Il problema è molto più serio. Sappiamo per certo che la lentezza della nostra giustizia è uno dei tre grandi problemi, assieme a una burocrazia inefficiente e un’alta tassazione, che tengono lontani gli investimenti esteri dall’Italia. Sono chiare le statistiche, tipo la graduatoria Cepej. Se in Germania ci vogliono 2 anni e mezzo per una sentenza civile, da noi ne occorrono 7. I tempi sono lentamente migliorati sia l’anno scorso, sia due anni fa, ma questi passi in avanti si misurano in mesi. Invece qui occorre recuperare in anni».
E poi proponete iniezioni massicce di managerialità.
«So che solo a parlare di manager nella giustizia, i giudici mi dicono: noi facciamo sentenze, non gelati. Giusto. Ma anche le sentenze devono tener conto del tempo, che incide sulla qualità della giustizia. Come sa un chirurgo: un’operazione fatta tra un mese non è la stessa se fatta dopo dieci anni. Per questo motivo pensiamo che i tribunali debbano essere gestiti come delle aziende, e che serva un direttore generale ad occuparsi di logistica, approvvigionamenti, gestione immobili. Così come serve nuovo personale. Dobbiamo tendere a medie europee anche nella spesa. Con tutti i soldi che si spendono… con un costo non enorme la giustizia potrebbe marciare più spedita».
Managerialità, dunque.
«Occorre gestire i tribunali con criteri di produttività, premialità per numero di provvedimenti e esito delle impugnazioni, performance. Tutto per ridurre l’abisso. Perché in un Paese dove la giustizia non funziona bene, non può avere un’economia che funziona bene».
LA STAMPA
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