Dov’è finita la civiltà del lavoro Dov’è finita la civiltà del lavoro

Anche nel lavoro si vive e si muore di paradossi. In tema di sicurezza abbiamo la legislazione più rigorosa e ipertrofica del Pianeta. Due anni fa, prima dell’Apocalisse virale che ci ha travolto, un mio amico ristoratore è stato bloccato tre mesi perché gli armadietti nello spogliatoio dei camerieri non risultavano alla giusta distanza l’uno dall’altro. Quante volte sentiamo parlare di attività bloccate perché non risultano “a norma”? Eppure in quest’ultimo anno quelle che ci ostiniamo a chiamare “morti bianche” sono aumentate del 38%. Evidentemente non bastano i codici. E probabilmente non bastano i controlli. Inl, Inps e Inail hanno sempre meno ispettori a disposizione: rispettivamente, 1.433, 1.021 e 246. Nel 2019, su una platea complessiva di 2,3 milioni di imprese, quelle controllate sono state solo 15.523. Lo 0,48% del totale. Molta prevenzione aiuta, troppa burocrazia complica.

Poi c’è il lavoro che manca. Di questo hanno parlato i leader europei ad Oporto. Mario Draghi ha definito “una tragedia” le tre grandi disuguaglianze del nostro tempo: quella generazionale, quella di genere e quella regionale. E lo sappiamo, e ce lo ripetiamo già da qualche anno: giovani e donne pagano il prezzo più devastante a una bancarotta morale e materiale che la pandemia ha soltanto acuito. I ragazzi che non studiano non si formano e non lavorano sono uno su sette in Europa e uno su quattro in Italia. Le donne, rispetto agli uomini, partecipano al mercato del lavoro per una quota inferiore di 11,3 punti in Europa e di quasi 25 punti in Italia. Chiara Saraceno lo ha scritto ieri con le parole ruvide del disincanto. Nel 2019, ultimo anno pre-Covid, il 72,9% delle persone che hanno perso il lavoro sono state donne. Nel 2020, primo anno post-Covid, su 249 mila donne licenziate o dimesse quasi il 40% sono mamme con figli minori. Partorirai nel dolore, in ogni senso, perché se lo fai ti mandano a casa.

Non sbaglia il premier italiano, quando segnala la crisi del Modello Sociale Europeo del quale siamo andati giustamente fieri per quasi un secolo, perché ci ha consentito di credere davvero che nessuno sarebbe mai stato lasciato indietro. Con tutta evidenza non è più così. Il patto socio-costituzionale tra protezione pubblica, capitalismo privato e lavoro salariato ha retto le nostre democrazie, ma sta franando sotto i colpi di troppi nemici. La globalizzazione e la delocalizzazione, la flessibilità e l’austerità, la caduta demografica e la consociazione politica. La natura dei mutamenti in atto esige risposte nazionali ma soprattutto sovranazionali. L’America di Joe Biden l’ha capito, archiviando per sempre i deliri finto-compassionevoli di Trump e imprimendo una netta curvatura sociale alla sua Amministrazione, che parte dalla liberalizzazione dei brevetti vaccinali, incrocia il Recovery da 1.900 miliardi di dollari, e arriva fino alla proposta al prossimo G20 di una “tassa minima globale” al 28% sulle grandi imprese per finanziare sviluppo e sostegni sociali e arginare l’evasione nei paradisi fiscali.

Anche l’Europa da qualche segnale di risveglio. I capi di Stato e di governo concordano sull’urgenza di politiche sociali comunitarie. Draghi chiede di far diventare “strutturali” i fondi Sure per alimentare gli ammortizzatori nei singoli stati membri. Piccoli passi avanti sul fronte dell’assistenza, anche se sappiamo tutti che la battaglia da vincere, per garantire sicurezza e lavoro, è quella della crescita economica. Il Pnrr italiano prevede 19,8 miliardi per l’inclusione e la coesione, di cui 6 per le politiche attive del lavoro e 11,1 per infrastrutture sociali e famiglie, e poi 4,6 miliardi per gli asili nido. Si poteva fare di più. In proporzione ai fondi assegnati da Bruxelles, gli altri Stati dell’Unione si aspettano un impatto occupazionale più forte dai rispettivi Piani di rilancio e resilienza.

Anche nel dopo-pandemia, e per quanto mutato in forme organizzative e norme contrattuali che ancora fatichiamo a immaginare, è solo il lavoro umano, nella sua irriducibile materialità, che deve continuare a far battere il cuore della civiltà occidentale. La Tecnica ha un pregio micidiale: funziona, spesso a prescindere. E nel suo funzionare, cioè produrre risultati essenzialmente economici, scavalca l’etica come misura dell’agire secondo un fine prestabilito, e la politica come sede della decisione secondo un interesse superiore. Non c’è bisogno di scomodare Heidegger per capire che questo processo, non governato, finisce per sradicare l’uomo dalla Terra.

LA STAMPA

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