Un Paese che resta ancora prigioniero del suo passato

Eppure il passato, per vivere, bisogna a un certo punto gettarselo alle spalle. Non dimenticarlo ma neppure restarne prigionieri. Semplicemente metterlo da un canto per trarne, quando serve, la necessaria ispirazione: magari, se possibile, nella solitudine delle coscienze anziché negli «special» televisivi.

Nel dopoguerra l’Italia fu capace di rialzarsi, di rimboccarsi le maniche e di compiere la spettacolare rinascita di cui ancora in qualche modo godiamo i frutti perché innanzi tutto le riuscì proprio questo: di sciogliersi dai lacci del proprio recente passato. Fu ciò che si propose l’amnistia per le nefandezze commesse durante la guerra civile promossa da Togliatti nell’accordo generale. Un’amnistia che lungi dal rappresentare un vile gesto di rinuncia fu viceversa un saggio atto di governo: al prezzo di un certo numero di ingiustizie, è vero, ma in vista di un vantaggio superiore. Quello appunto di esorcizzare il potere ricattatorio e paralizzante del passato terribile che avevamo attraversato.

Per vent’anni il Paese si limitò a rievocare le vicende trascorse nelle occasioni di prammatica, nelle date del calendario civile della nazione, ma nella sua pur aspra quotidianità politica si occupò d’altro e guardò avanti raggiungendo i traguardi che sappiamo. Proprio quello che invece l’Italia odierna non sembra in grado di fare: e forse proprio perciò siamo da decenni un Paese bloccato, che sembra quasi ipnotizzato dalle proprie impossibilità. Un Paese incapace di muoversi e di progredire, di superare gli ostacoli, di pensare al nuovo, perché la sua testa e i suoi occhi, l’attenzione del suo discorso pubblico, sono sempre pronti a rivolgersi ossessivamente all’indietro: a piazza Fontana, a Sindona, a Ustica, alla strage di Stato, alle Brigate Rosse, alla P2, a Mani Pulite. E così via, così via, nell’elenco praticamente infinito di un passato che non passa.

CORRIERE.IT

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