Mario Draghi lavora gratis? Il vero populismo fu quello di Giuseppe Conte
Condivido molte osservazioni di Gianluigi Paragone sulla ipocrisia di molti santi guerrieri contro i costi della politica, e anche le sue frecciate a chi ha predicato fra i M5s molto in questo senso e razzolato male assai di più quando si è trattato di fare avere soldi pubblici ad amici e familiari spesso per lavori che non sono in grado di svolgere. Ma non credo sia questo il caso di Mario Draghi che ha scelto di non ricevere l’indennità di 110.442,48 euro annuali che spetta al presidente del Consiglio dei ministri. Per un semplice motivo: non ha propagandato lui questa scelta, l’abbiamo scoperto tutti solo nel giorno ultimo in cui il premier per legge era tenuto a pubblicare sul sito dell’amministrazione trasparente della presidenza del Consiglio la sua situazione reddituale e patrimoniale, come quella di tutti gli altri membri del governo. Draghi ha fatto dunque quella scelta in silenzio, e non se l’è posta come medaglia sul petto come fanno i demagoghi. In questo c’è una bella e sostanziale differenza con il suo predecessore, Giuseppe Conte.
Quando questi divenne presidente del Consiglio il primo giugno 2018 fu pagato come tutti i suoi predecessori per due mesi con lo stipendio assegnato dalla legge, che è pari all’indennità di base ricevuta da tutti i parlamentari. Nel frattempo però fu invitato alla festa annuale del Movimento 5 stelle e davanti a Beppe Grillo volle fare bella figura con un gesto che accarezzasse la pancia dei grillini: “Mi taglio lo stipendio del 20%”, disse strappando applausi e commozione nell’uditorio. “Che signore”, pensò la gente, “questo sì che è un politico diverso…”. E in effetti da agosto o settembre di quell’anno il suo stipendio da premier fu ridotto a 88.353,98 euro l’anno. Nel 2020 sarebbe pure stata fatta circolare un’altra indiscrezione di un taglio dello stipendio in tempo di coronavirus per soffrire insieme agli italiani, ma questa era una delle tante balle che circolavano intorno a Conte. Questi sì sono atti propagandistici e un bel po’ populisti.
Anche perché di Conte nessuno sapeva nulla fino al giorno in cui non arrivò a Palazzo Chigi, e lui che dichiarò ai quattro venti di essersi tagliato lo stipendio del 20%, ben si guardò da svelare quanto in quegli stessi mesi gli stava finendo in tasca. Su quello mantenne il segreto rigorosamente e lo scoprimmo più di un anno dopo quando anche lui come Draghi fu costretto a pubblicare tutto secondo la legge. L’uomo che rinunciava a 20 mila euro in quel 2018 aveva ogni mese in tasca 100.616 euro, lo stipendio annuale di un presidente del Consiglio. Aveva dichiarato infatti un reddito complessivo di 1.207.391 euro, che diventava imponibile per 1.167.478 euro dopo avere dedotto 49.835 euro di assegno divorzile corrisposto alla e moglie e madre di suo figlio. Di quel reddito solo 97.094 euro erano da lavoratore dipendente, quale sono sia un premier che un professore universitario (i primi mesi era dipendente dell’Università di Firenze da cui poi si è messo in aspettativa senza assegni), il resto era reddito da lavoro autonomo che Conte non avrebbe potuto svolgere facendo anche il premier. Lui in imbarazzo si sarebbe giustificato: “non è lavoro di adesso. Solo che tutti mi hanno pagato vecchie parcelle da avvocato di cui mi ero dimenticato”. Possibile e comprensibile in chi non voleva avere un contenzioso con un legale che in quel momento aveva ogni potere sulla vita di tutti gli italiani.
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