La sterzata obbligata di Enrico Letta
Per necessità, per virtù, o per entrambe, perché, in politica occorre anche fare di necessità virtù, insomma, dopo Roma e, a cascata, ciò che è avvenuto nella altre città disvelando il grande equivoco sull’alleanza con i Cinque Stelle, Enrico Letta, nella sua relazione alla direzione del Pd una sterzata la compie rispetto alla linea seguita fin qui: “Le alleanze – dice – sono conseguenza di chi siamo, non definiscono la nostra identità”. Il che, non fa una piega. Ed è – né più meno – quel che il segretario disse al momento della sua elezione all’unanimità, dietro la quale, come evidente nelle settimane successive, permaneva il grande equivoco di una collocazione strategica irrisolta e la rimozione non banale della “vergogna” che aveva portato alle dimissioni del suo predecessore: prima cioè la costruzione di un centrosinistra, poi il confronto con i Cinque stelle, in attesa del parto della leadership di Conte, dopo lungo travaglio.
In mezzo, si è squarciato il velo di Maya del grande equivoco perché è complicato definirsi alleati, pur andando separati ovunque, a Roma come a Torino e Milano. Diciamo le cose come stanno: se il segretario si fosse presentato oggi in totale continuità con la fase precedente, come fatto finora, probabilmente sarebbe stato crocifisso. Si è visto nel dibattito dove accenti critici verso i Cinque stelle, a cui con grande indulgenza è stata data la patente di “progressismo” tranne poi constatare al dunque una refrattarietà a costruire un fonte comune contro il centrodestra, sono arrivati sia dalla destra che dalla sinistra del partito. Sia come sia, più subito che voluto, c’è un cambio oggettivo, così oggettivo che finanche il principale ideologo di quell’asse strategico, Goffredo Bettini, è costretto ad ammettere bon gré mal gré che “la fase è cambiata”.
Un cambio mica banale, perché entra in discussione un impianto perseguito testardamente negli ultimi due anni. E impone di fare i conti con la propria “identità”, la parola più citata negli interventi, che è poi il tema irrisolto da anni, e finora concepita come adattamento, anche subalterno, alle logiche e ai partner di governo. In questo senso, come recupero di una certa autonomia, va letto il sostegno alla proposta della Cartabia sulla giustizia, che tocca il tabù della prescrizione, rimasto intoccabile ai tempi del governo gialloverde in nome di una acritica stabilità nonostante fosse nei patti cambiarlo. E in tal senso va letto l’invito a trovare “un’anima” e una missione per il governo Draghi sul terreno economico e sociale, oltre la gestione della pandemia e il Recovery. Anche tutta la discussione sulla legge elettorale è assai indicativa con mezzo partito che chiede il proporzionale e su cui il segretario, da sempre un sostenitore del Mattarellum – legge che impone un matrimonio forzato con gli alleati – resta vago perché “non abbiamo i numeri per farla da soli”.
Fa abbastanza effetto, e questo non è imputabile a Enrico Letta chiamato a spegnere l’incendio in una casa che brucia, sentire un partito nato quindici anni fa e al governo, tranne la parentesi gialloverde, da una decina d’anni invocare la “riscoperta” della propria “identità” , segno che la percepisce come smarrita, nell’ambito di un kamasutra politico iniziato col governo assieme a Berlusconi (proprio guidato da Letta), fino a Draghi, passando per Conte. In dieci anni un ventaglio di posizioni anche opposte segnate da un ribaltamento dei piani – prima il governo (la famosa responsabilità), poi l’identità – mentre il paese è scivolato a destra, senza che l’esperienza di governo mutasse i rapporti di forza nella società italiana.
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