Pochi figli: un disagio in numeri
di Federico Fubini
L’Italia ha appena vissuto il più rapido calo di popolazione mai registrato nella sua storia unitaria ad eccezione del 1919, anno di febbre spagnola. Nel 2020, abbiamo perso quasi quattrocentomila abitanti. Anche questa volta una pandemia ha contribuito drammaticamente alla recessione demografica, ma cercare di spiegare tutto così significherebbe mettere la testa nella sabbia. È da sei anni che la popolazione in Italia non fa che scendere, anno dopo anno. Qualcosa del genere non era mai accaduto in un secolo e mezzo di Stato unitario, al massimo c’era stato un biennio di calo proprio all’uscita dalla prima guerra mondiale. Invece ora siamo in tempo di pace eppure dal 2015 abbiamo già perso poco meno di 1,1 milioni di abitanti, senza mai riuscire a invertire la rotta.
E anche se lasciamo per un momento da parte i valori e la psicologia di una nazione, un fenomeno del genere avrà sempre conseguenze concrete. Poiché in media un italiano spende quasi 17 mila euro all’anno in consumi (mangiare, vestirsi, riscaldarsi o andare in vacanza), oltre un milione di abitanti in meno alla lunga creano differenze strutturali. Equivalgono all’uno per cento di prodotto interno lordo in meno, ogni anno: meno consumi, minore fatturato delle imprese, meno investimenti per vendere prodotti a una platea che si restringe e invecchia, meno gettito fiscale, meno capacità di sostenere i sistemi di welfare. Per un Paese in recessione demografica permanente, la crescita necessaria a sostenere il debito pubblico più alto della sua storia diventa una chimera. Non siamo in equilibrio, non possiamo semplicemente rassegnarci all’idea di un’Italia un po’ meno popolata.
Anche perché tutto questo non nasce oggi, ma viene da lontano e rischia di proseguire molto a lungo se non si fa niente per spostare la traiettoria del Paese. A guardar bene, questo è un fenomeno che le classi dirigenti italiane del dopoguerra non hanno mai realmente cercato di governare. L’hanno lasciato a se stesso, come facesse parte della natura e non della politica. Del resto nel 1946 un’Italia cosparsa di macerie contava il maggior numero di nascite d’Europa, quasi duecentomila più della Francia, trecentomila più della Germania Ovest e comunque molte più della Gran Bretagna. Anche dieci, venti o trent’anni dopo gli italiani continuavano a fare più figli degli europei degli altri grandi Paesi (al netto di un breve sorpasso di misura dei tedeschi occidentali al picco del baby boom). Poi però improvvisamente l’ingranaggio si rompe. La dinamica si inverte. Già a metà degli anni ’80 un’Italia matura, pacificata dopo gli anni di piombo, liberata dalla febbre dell’iperinflazione, è già passata dal primo all’ultimo posto per numero di nascite fra i grandi d’Europa. Eravamo in grande vantaggio, ci siamo trovati in enorme svantaggio. Durante l’arco del dopoguerra siamo passati da oltre un milione ad appena quattrocentomila nascite all’anno, mentre ad esempio la Francia ne ha sempre, regolarmente avute fra 700 mila e 800 mila pur passando attraverso la quarta e la quinta Repubblica, crisi politiche, recessioni e tempeste finanziarie. Si vedono qui i segni di una classe dirigente, se c’è. Perché quando c’è capisce un fenomeno profondo, lo vuole e lo governa; non lo lascia a se stesso. Le élite francesi hanno dato un senso di direzione permanente alla demografia del loro Paese, capendo che questa è l’infrastruttura che sostiene una comunità. Hanno curato la spina dorsale della nazione. Le élite italiane, ammesso che fossero tali, non ci hanno mai dedicato un pensiero. Il risultato è che dopo la guerra gli italiani erano tre milioni più dei francesi e ora sono otto di meno. I bebè erano quasi un quarto di più e ora sono poco più della metà, al conto dell’anno scorso.
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