Pax Draghiana e stanchi litigi della politica Pax Draghiana e stanchi litigi della politica

Draghi è anche “sistema”. Meglio: come scrive Lucio Caracciolo, è “leader sistemico”. Il vincolo esterno cogestito dall’interno. Le sue relazioni con l’establishment dell’economia e della finanza mondiale sono una risorsa da sfruttare, non un problema da denunciare. Lo abbiamo visto in Europa dove l’Italia, complice il lungo addio di Angela Merkel, si è distinta per un nuovo protagonismo. Dalla parziale liberalizzazione dei brevetti vaccinali al rilancio del piano per le politiche sociali, l’ex presidente della Bce ha lasciato un’impronta tangibile sugli ultimi due Consigli Ue. E ha dato una chiara assertività al riposizionamento atlantico del Paese e ai rapporti con l’America di Biden: il transito ai vertici di Goldman Sachs è fonte di prestigio riconosciuto, molto più che di sospetto diffuso. Per capirlo, se proprio non ci si vuole soffermare sulla curva dello spread e sulla famigerata “dittatura dei mercati”, basta leggere un po’ di stampa estera, che parla di “Supermario come ultima istanza prima della Troika”. Questi sono fatti, non opinioni. E anche in questo caso, gli orfani di Conte se ne dovrebbero compiacere, invece che rammaricarsene.

Intendiamoci: tutto questo non significa che Draghi sia il nuovo Unto del Signore. Sul fronte interno, gli vanno addebitate azioni discutibili e omissioni inaccettabili. L’ennesimo condono nel primo Decreto Ristori è un’onta ai contribuenti onesti che ci saremmo volentieri risparmiati. Il plauso alla Guardia costiera libica, dopo la visita a Tripoli, è un’offesa ai migranti morti in mare che non avremmo mai voluto ascoltare. Al contrario restano assordanti i silenzi su Zaki e Regeni, sul disegno di legge Zan e in generale sui diritti civili. Sul fronte internazionale, poi, ci vuol ben altro che un trimestre da Draghi per ricostruire la credibilità perduta. Restano vere le parole pronunciate alla Camera il 6 febbraio 1855 da Camillo Benso Conte di Cavour: “Siamo una nazione di secondo ordine”. Oppure quelle scandite il 2 ottobre 1930 al Gran Consiglio del Fascismo da Dino Grandi: “Noi non siamo ancora i protagonisti della vita dell’Europa, ma i protagonisti dell’Europa non possono fare a meno di noi”.

Dunque, ammesso che esista, la “Pax Draghiana” è tutt”altro che compiuta e niente affatto definitiva. Sotto Draghi, per quanto stremata e screditata, la politica mena e si dimena. Dovrebbe approfittare di un governo autorevole e sopra le parti per ricostruire le sue macerie. E invece fa l’esatto contrario. Toccato il fondo non rimbalza, si mette a scavare. La lotta continua tra Salvini e Letta è ormai diventata una sfida di sumo, dove i due avversari imbolsiti si sfiancano per buttarsi reciprocamente fuori dal campo di gioco. La missione di Conte, prendere in mano il M5S e ridargli leadership e progetto, si sta ormai rivelando impossibile. Nonostante l’abilità di Draghi nel fare slalom tra le “bandierine identitarie”, questa confusione logora il governo. E in ogni caso ne rallenta l’azione. Domani l’ennesima cabina di regia deve decidere sulle riaperture, poi tocca al Decreto Ristori 2 e al nuovo Decreto Semplificazioni. L’agenda è fitta: ogni ulteriore ritardo è solo un favore per la Meloni e un danno per l’Italia. Non sbaglia il Capitano leghista a dubitare che questa sgangherata “Grosse Koalition” tricolore possa fare grandi riforme. Ma dirlo è già un modo per frustrare ogni tentativo.

Sabotare la “Pax Draghiana” è peggio che un delitto: è un errore politico. Salvo che, per liberarsene, non si voglia spedire Draghi al Quirinale nel febbraio 2022. Ma in quanti, tra i parlamentari, sono pronti a dargli il benservito alla fine del semestre bianco, sapendo che poi non ritroveranno lo scranno sul quale stanno ancora comodamente seduti?

LA STAMPA

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