La Povera patria di Battiato, «ma l’Italia rinascerà, lo capisco dai miei concerti»
di Aldo Cazzullo
Franco Battiato era un pazzo: era convinto che il cane di casa fosse la reincarnazione di suo padre, e il gatto di sua madre. Franco Battiato era un genio. Un giorno raccontò, sorridendo: «Ho passato gli anni 70 a fare vocalizzi ed esperimenti. Poi ho deciso di avere successo. Mi sono chiuso un mese in un garage a Milano, e ne sono uscito con “La voce del padrone”».
Forse il disco più bello, certo quello di maggior successo mai inciso da un cantautore. Franco Battiato era uomo di una rettitudine assoluta. Molto severo con i potenti e con la politica. Provò anche a farla, da assessore; ma capì presto che non era per lui. Disse che se a Catania avessero rieletto un sindaco che non stimava, avrebbe lasciato la città; e così fece. «Però il nostro giornale ti tratta sempre bene» gli obiettò uno scrittore. Lui rispose: «E tu credi che io sia così miserabile da giudicare le persone non per come sono, ma per come si comportano nei miei confronti?». È stato il più colto e il più profondo tra i musicisti italiani. Pensava che i grandi artisti si parlassero tra loro, in varie forme. Ti faceva ascoltare l’Adagio di Telemann e La canzone dell’amore perduto di De André e diceva: «Senti? Sono uguali. Ma Fabrizio non ha copiato; ha ripreso un discorso interrotto. De André è stato anche un bravo astrologo». Astrologo? «Dilettante. Ma di grande acume».
Viveva a Milo, un posto bellissimo quindi adatto a lui, castagni e nuvole basse, a dieci minuti dal mare e a dieci minuti dall’Etna. Era molto diverso dalla sua immagine pubblica, un po’ distanziante: ad esempio era molto alto, disponibile, allegro e ricordava fisicamente il suo conterraneo Pippo Baudo. Lo divertiva l’idea di essere nato in una città che non esiste più, Jonia, tornata dopo il fascismo a dividersi tra Giarre e Riposto.
Famiglia di pescatori. Il padre, camionista e scaricatore di porto a New York, morì quando lui aveva 19 anni. Franco partì per Milano. «Allora era una città di nebbia, e mi sono trovato benissimo. Mettevo a frutto la mia poca conoscenza della chitarra in un cabaret, il Club 64, dove c’erano Paolo Poli, Jannacci, Toffolo, Cochi e Renato, Andreasi, Lauzi. Io aprivo lo spettacolo con due o tre canzoni siciliane: musica pseudobarocca, fintoetnica. Tra il pubblico c’era Giorgio Gaber che mi disse: vienimi a trovare, un giorno. Andai il giorno dopo. Diventammo amici anche con Ombretta Colli, fui io a convincerla a cantare». Poi si mise in viaggio verso Oriente.
Visitò il monte Athos e Konya, la città dei dervisci rotanti, lesse Aurobindo e Gurdjieff, studiò il misticismo sufi e il buddismo tibetano, arrivò vicino ai segreti della vita e della morte. Raccontava divertito che Finardi una volta gli aveva detto: «Ho cercato sull’atlante città dai nomi suggestivi per una canzone, ma le avevi già esaurite tu». Però l’ascetico Battiato è anche l’autore di “Povera patria”, un durissimo testo di denuncia civile datato 1991, ultimo anno della Prima Repubblica. Diceva: «La canto sempre. E quando cito i “perfetti e inutili buffoni” che abbiamo tra i governanti, si alza un applauso, più forte e lungo di quelli di allora». Non era di destra, e si seccava quando lo scrivevano; ma era un anticomunista convinto. «I servizi d’ordine degli anni 70 erano uguali, non distinguevi gli estremisti neri da quelli rossi».
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