Se Mattarella alza la voce

Ugo Magri

C’è troppa agitazione fuori luogo. Un surplus di tensioni inutili. Un eccesso di batti e ribatti. Una frenesia di distinguersi, di rimarcare le differenze, di sventolare bandiere anche giuste, magari addirittura sacrosante, però nel momento meno adatto perché adesso ci sarebbe bisogno di stare uniti.

E remare dalla stessa parte senza tirarsi calci negli stinchi. No: purtroppo non sta andando come Sergio Mattarella si sarebbe aspettato. Il presidente lo fa intendere con un appello ai partiti che guai a definirlo tirata d’orecchi o ramanzina, però è la seconda volta in due settimane, segno che la prima dose esigeva un richiamo. «Questo è il tempo di pensare al futuro, progettandolo e realizzandolo insieme», esorta il capo dello Stato. «Ciò non vuol dire abbandonare le proprie prospettive, idee e opinioni. Ma confrontarsi costruttivamente è ben diverso che agitarle come motivi di contrapposizione insuperabile». Già, c’è differenza. Quando si sta insieme nella stessa maggioranza e nello stesso governo, sarebbe normale darsi una mano a vicenda. Valorizzare i risultati comuni. Puntare su ciò che unisce. Invece Mattarella riscontra una voglia sempre più scarsa di concentrare gli sforzi, fare sintesi, cercare intese. Esempi di polemiche inutili sul Colle non se ne fanno, e si capisce, perché equivarrebbe a puntare l’indice contro qualche protagonista aggravando il tasso di nervosismo. Lassù rimandano semplicemente alle cronache di questi giorni, dominate prima dal braccio di ferro sulle riaperture sì-riaperture no, poi dalla legge Zan rilanciata da Enrico Letta, quindi dai referendum sulla giustizia che strumentalmente Salvini sponsorizza e infine, adesso, dagli scambi di colpi tra Lega e Pd sul futuro di Mario Draghi oltre che delle riforme da fare. Stabilire chi abbia incominciato, dunque di chi sia la colpa delle tensioni, sarebbe come decidere se è nato prima l’uovo della gallina. Ciascuno vi ha messo del suo.

In parte ciò è naturale, perché mancano quattro mesi e mezzo alle elezioni amministrative, dove sono in palio sindaci di grandi città come Roma, Milano, Napoli e Torino; figurarsi – osservano al Quirinale – se il presidente non riconosce alle forze politiche il diritto di contendersi i voti e, dunque, quel tanto di animosità che nelle campagne elettorali non è mai mancata, perfino tra alleati. Ma c’è modo e modo.

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