Corvi, dossier, soffiate: i mali eterni della giustizia e la memoria di Falcone

Le sconfitte

Giovanni Falcone a lungo andare la sua guerra la perse. Prima politicamente perché costretto a lasciare Palermo ed alcune inchieste che, in mano sua, avrebbero assunto ben altri sviluppi, per esempio l’inchiesta sugli omicidi politici (Mattarella, La Torre, Reina, Insalaco e Dalla Chiesa). Ma la sconfitta definitiva gli sarebbe arrivata coi 450 chili di tritolo di Capaci, il 23 maggio del 1992, fatti esplodere da Cosa nostra, ma col tacito consenso di «interessi alti» che quel giudice non lo avevano mai sopportato, ritenendolo un serio impedimento alla scelta del «quieto vivere» e alla tutela del mantenimento di quei privilegi acquisiti da politici, affaristi, imprenditori di bocca buona e faccendieri del tutto simili a quel Piero Amara che oggi occupa le prime pagine.

E furono le stragi mafiose e l’esplosione della Tangentopoli milanese (la presa d’atto di una corruzione, politica e imprenditoriale, diffusa e incontrollabile) a rimettere il coperchio e il silenziatore sulla “malattia” della giustizia e del Csm. Le inchieste dei pool (Milano e Palermo) fecero esplodere un’intera classe politica. Un Parlamento falcidiato e depotenziato da arresti e avvisi di garanzia non trovò di meglio che assegnare una delega salvifica alla magistratura. Tranne, poi, ricorrere ad un ritiro unilaterale di quella delega che, inevitabilmente, avrebbe riacceso l’eterno conflitto fra politica e giudici.

L’eredità

Al di là di quanto sta accadendo ancora oggi, al di là del perpetuarsi di un sistema che certamente andrebbe rivisto e riformato (ma senza cedimenti a cogliere l’opportunità per riassegnare impunità politiche), a noi resta l’eredità lasciataci da Giovanni Falcone, da Paolo Borsellino e da tutti i martiri che hanno sacrificato le loro vite per vincere una battaglia che è anche di libertà e di democrazia. E non è soltanto un lascito di valori etici e di civiltà, ma anche di strumenti pratici per rendere più efficace la lotta alla corruzione, al terrorismo e alle organizzazioni mafiose.

Si tratta di un patrimonio (soprattutto la legislazione antimafia) che ci invidia tutto il mondo occidentale e che, ancora oggi, viene copiato da Paesi molto avanzati. Un patrimonio che va salvaguardato e difeso soprattutto dai tentativi periodicamente messi in atto da lobby di incerta natura. Assistiamo al fiorire di collaboratori dell’ultima ora che spargono rivelazioni e illazioni buone solo a mettere in discussione sentenze e processi già passati in giudicato. Mezzi pentiti, fuori dal programma di protezione, che declamano tranquillamente a favore di telecamere senza nessuna cautela per la propria incolumità, addirittura testimoni che parlano per conto di ergastolani non rassegnati alle condanne riportate nel corso di regolari processi.

La riforma dell’ergastolo

In questo marasma, infine, si innesta un tema, delicato e concreto, destinato a far discutere parecchio nei prossimi mesi. Stiamo parlando dell’ergastolo ostativo e della conseguente presa di posizione della Corte Costituzionale a proposito del «fine pena mai» e del reale problema legato al diritto di usufruire di agevolazioni carcerarie anche per i mafiosi e per quelli che non accettano il richiamo alla collaborazione con lo Stato. La Corte ha posto sul tappeto il problema ma, consapevole della complessità dell’argomento, ha anche dato un tempo (un anno) al Parlamento per fare una legge sull’ergastolo ostativo che garantisca costituzionalmente il trattamento uniforme per tutti i detenuti, ma senza interferire in negativo sulla necessità di mantenere alto il contrasto alle mafie. E senza trascurare il fatto che tra le aspettative di Cosa nostra c’è sempre stata l’abolizione dell’ergastolo e una carcerazione “accettabile”. Un boss che sa di poter tornare libero è un capo che può continuare a decidere della vita e della morte di altri uomini. Un capomafia all’ergastolo è come un “presidente onorario”, rispettato, ma non abilitato a decidere. Ce lo ha insegnato Giovanni Falcone.

LA STAMPA

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