Ora non chiamatele disgrazie
di Gian Antonio Stella
Il destino? Mah… Troppo facile, in casi come questi, parlare di una tragica fatalità. Troppe volte queste parole sono state usate per spiegare sciagure che poi, con gli approfondimenti delle indagini e l’emergere di dettagli al momento ignoti, si sarebbero rivelate come causate da responsabilità umane. Certo è che il disastro della cabina della funivia del Mottarone inghiottita ieri mattina dall’abisso ha colpito gli italiani come una coltellata a tradimento.
Erano otto mesi che le persone aspettavano finalmente di uscire dall’incubo della pandemia, dei centomila morti della seconda ondata del virus, della scuola a singhiozzo coi ragazzi inchiodati alla Didattica a distanza vissuta come forzati ai remi delle galee, delle saracinesche abbassate, del tormentone dei vaccini e pareva che potessimo infine, davvero, tirare un sospiro di sollievo. E quello doveva essere lo spirito con cui le famiglie annientate dalla tragedia avevano raggiunto ieri mattina Stresa, sul Lago Maggiore, per salire con la funivia in cima al Mottarone, da quasi un secolo e mezzo una delle mete più amate dai milanesi, e spaziare con lo sguardo intorno dal Monte Rosa ai sette laghi fino ad aguzzar la vista verso la piana dove, nelle giornate più limpide, dicono si intravveda il Po.
Finalmente una gita. Finalmente un cielo senza nuvoloni, né atmosferici né metaforici. Finalmente, tra qualche incertezza, il sole. La partenza. Le risate dei bambini. La fretta di arrivare lassù. Poi possiamo solo immaginare. Un sussulto. Uno schiocco. Il respiro fermato. La scudisciata del cavo spezzato. Il precipizio. Il vuoto. Pochi istanti ed è tutto finito. Laggiù, fra gli alberi. Centinaia di metri più sotto. Dove alle due del pomeriggio i vigili del fuoco arrivati tra mille difficoltà sul posto scattano la prima fotografia. Con il sole che batte sulla carcassa rossa e bianca della cabina riversa tra gli alberi.
E restiamo tutti lì, appesi all’interrogativo: cosa è successo? Quella volta del Cermis, nel ’98, venti morti, si seppe: un aereo dei marines della base americana di Aviano, che volava troppo basso, aveva tranciato un cavo della funivia. E così quindici anni fa, quando un elicottero che portava in alta quota sulle Alpi tirolesi una trave di cemento ai confini tra l’Austria e l’Italia dove era stato ritrovato Ötzi, la celebre Mummia del Similaun ora esposta a Bolzano, perse il carico piombando sulla funivia che solcava il ghiacciaio uccidendo nove persone tra le quali tre bambini. Orrori inaccettabili. Ma era comunque meglio sapere chi portava la responsabilità dei lutti.
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