L’Italia delle fragilità
Salvatore Settis
Ancora una volta l’Italia piange i suoi morti; e se nel caso del ponte Morandi si è potuto accusare la carenza di manutenzione, questo (dicono) non è il caso per la funivia di Stresa. Dobbiamo dunque maledire l’accanirsi di un cieco destino? O il Bel Paese soffre di una fragilità strutturale che ne indebolisce le difese e finisce per giustificare, fatalisticamente, chi la manutenzione non la fa e chi la pratica in modo inadeguato?
Non c’è sfera di cristallo, non c’è negromante da cui invocare risposte. Abbiamo (avremmo) uno strumento più efficace per interrogarci su questo tema, che compare e scompare nel discorso pubblico come un perenne, ostinato fiume carsico. Questo strumento è (sarebbe) la memoria. A stracciarci le vesti dopo ogni disastro siamo bravissimi, e per fortuna lo siamo anche a correre, talvolta eroicamente, al soccorso.
Ma siamo altrettanto bravi a dimenticare le fragilità di un Paese che è il più franoso d’Europa, il più soggetto a terremoti, alluvioni, esondazioni. Nell’intervallo tra un disastro e l’altro dimentichiamo la quotidiana devastazione delle coste, dei paesaggi, dell’ambiente; rimuoviamo dalla coscienza il crescente rischio idrogeologico diffuso per ogni dove, i torrenti prosciugati da «grandi opere» magari utili (non sempre) ma irrispettose dell’ambiente (quasi sempre); ci bendiamo gli occhi per non vedere le navi-grattacielo che appestano la Laguna di Venezia; per non accorgerci che centri preziosi come L’Aquila o Camerino attendono invano la ricostruzione anni e anni dopo il sisma; per non riflettere che la riduzione dei suoli agricoli ci fa dipendere da costose importazioni agroalimentari. Queste endemiche amnesie collettive sono un’ulteriore fragilità del Paese e impediscono alla politica (ma anche ai cittadini) di cercare lucidamente un rimedio che non sia peggiore del male. Incuranti delle cifre sul consumo di suolo (tre metri quadrati al secondo, quasi 25.000 chilometri quadrati negli ultimi 60 anni), continuiamo imperterriti a propugnare i lavori pubblici e l’edilizia privata come principale motore dell’economia. Invano si ripete che la vera grande opera di cui il Paese ha bisogno è la sua messa in sicurezza, che potrebbe dar lavoro a milioni di persone. Invano si spera nell’incremento delle energie rinnovabili: la ricerca scientifica, che potrebbe innescare idee e progetti, viene scoraggiata e definanziata, e intanto fioriscono gigantesche pale eoliche, e anche quando fossero smantellate ognuna di esse si lascerà dietro un cubo di cemento di 20 metri di lato.
Un’inveterata abitudine ci spinge a negare i mali che ci affliggono: abbiamo visto ministri propugnare il Ponte sullo Stretto all’indomani (letteralmente) dell’alluvione di Messina del 2009 (37 morti), come se fosse una vergogna ammettere che quella è fra le aree più franose d’Europa, o che il terremoto del 1908 fece fra Reggio e Messina almeno 100.000 vittime. Forse vorremmo essere un Paese del Nord Europa, senza terremoti e senza vulcani, e con bassissima densità abitativa; ma l’intensa antropizzazione di un suolo fragile come il nostro è un’ulteriore ragione di fragilità, che solo il destarsi di una vigile coscienza civile potrebbe medicare o ridurre.
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