Il «caso» Generali: la governance alla prova del mercato
di Ferruccio de Bortoli
In quella che un tempo era chiamata la galassia del Nord – lungo l’asse tra Milano e Trieste – si sta disputando un confronto di potere che non ha nulla di inedito. Gli equilibri azionari di Mediobanca e Generali — con tutto ciò che sta loro intorno, e l’elenco sarebbe lunghissimo — hanno sempre costituito una perfetta cartina di tornasole dello stato dei rapporti tra proprietà e mercato, azionisti e manager, finanza e industria, privato e pubblico. Sono stati sempre riconoscibili, in filigrana, qualità e difetti della classe dirigente italiana. E, in fondo, si poteva valutare persino il grado di maturità di una democrazia economica, fragile e incerta come quella italiana. La domanda che dovremmo porci oggi è se sia ancora così. E, soprattutto, se vi sia qualche elemento ulteriore che al tempo degli infiniti duelli intorno al cosiddetto salotto buono della finanza, non era nemmeno lontanamente immaginabile.
ASSICURAZIONI
Gli avvenimenti degli ultimi giorni mostrano il crescente attivismo di due importanti azionisti sia di Mediobanca sia di Generali. Due stelle della galassia del Nord, anche se uno di loro è più mediterraneo dell’altro. Leonardo Del Vecchio ha acquistato, attraverso UniCredit — che peraltro uscendo da Piazzetta Cuccia ai tempi dell’ineffabile Jean-Pierre Mustier, gli aveva già lasciato un ampio spazio— un nuovo pacchetto di azioni Mediobanca venduto da Fininvest. Il patron di Essilux è così arrivato al 15,2 per cento ed è pronto a salire, avendo il via libera della Banca centrale europea, al 20 per cento. E lo potrebbe fare sia acquistando sul mercato sia sfruttando altre probabili opportunità.
Per esempio se Mediolanum (partecipata Fininvest) e Benetton decidessero, a loro volta, di vendere. La finanziaria di famiglia di Del Vecchio, la Delfin, è poi azionista al 4,8 per cento della principale partecipata (al 12,9 per cento) ma di fatto controllata della banca d’affari milanese, ovvero le Generali.
Francesco Gaetano Caltagirone è il secondo azionista con il 5,6 per cento della compagnia assicurativa, oltre a possedere l’1 per cento, di piazzetta Cuccia. E ha posto, con una certa fermezza, il tema della gestione e della redditività del gruppo triestino. Insoddisfatto dell’andamento complessivo, soprattutto nel costante e negativo confronto con la crescita della capitalizzazione dei concorrenti Allianz, Axa e Zurich. Nonostante Generali, sotto la gestione di Philippe Donnet, abbia chiuso un 2020 con ottimi risultati, utile e cedole in crescita, al punto di promettere ai propri azionisti un generoso buy back.
Donnet, che punta ovviamente a una riconferma, ha annunciato a sorpresa di aver preso la cittadinanza italiana. Gesto lodevole. Un predecessore di Gabriele Galateri alla presidenza del Leone, Antoine Bernheim, non si peritò, nemmeno per sbaglio, di parlare in italiano.
Le richieste
Mentre
Del Vecchio non ha chiesto (per ora) nessun posto nel board — eletto
con la lista del consiglio — e nessuna variazione della governance di
piazzetta Cuccia, Caltagirone, dopo aver disertato l’assemblea di
bilancio del Leone, ha invece invocato una serie di innovazioni:
dall’istituzione di un comitato esecutivo a una direzione generale.
Caltagirone vorrebbe anche rafforzare il ruolo del presidente. L’Ivass,
l’autorità di controllo delle assicurazioni, lo sconsiglia.
Se le
proposte di Caltagirone venissero accolte, il ruolo del neoitaliano
Donnet ne uscirebbe fortemente indebolito. E, di conseguenza, anche
quello del suo eventuale successore. I due imprenditori sembrano
muoversi in parallelo, in formale e obbligata autonomia, ma certamente
hanno in mente un loro disegno di rilancio delle importanti partecipate.
Soprattutto di Generali, compagnia che
Enrico Cuccia giudicava irrinunciabile, vera e propria multinazionale
italiana, ancora più importante della propria creatura bancaria, alla
quale ancora oggi apporta una quota rilevante del proprio utile.
Dovremmo
chiederci, inoltre, se in tutti questi anni, specialmente quando
Trieste dipendeva troppo — anche negli umori — dal suo azionista
milanese, se la farraginosità della
governance non sia stata un freno alla crescita e alla stabilità del
management e dunque della perseguibilità dei piani di rilancio.
Se cioè l’ansia del controllo non abbia, in diverse fasi, prevalso sulla
spinta alla crescita. Se grandi imprenditori, tra i più liquidi
d’Italia, decidono di investire in due prestigiose istituzioni
finanziarie italiane — nell’osservanza delle regole — è certamente un
fattore positivo.
banche
Quando si arrivò persino a ipotizzare — a maldestra difesa
dell’italianità — l’uso del golden power contro Delfin perché
lussemburghese, le reazioni furono giustamente immediate e negative. Ma
molto dipenderà dall’assetto di governance che non solo regolerà la vita
e la crescita di due importanti istituzioni, come Mediobanca e
Generali, ma condizionerà le aggregazioni future della finanza italiana,
la sua reputazione internazionale, la sua capacità di attrarre
capitali, investitori istituzionali e talenti nell’era della
sostenibilità e dei fattori Esg.
Attrattività che sarebbe più
modesta se prevalesse un’impronta «padronale», riflesso istintivo di
eccellenti storie imprenditoriali di successo o, al contrario,
risultasse sbilanciato a favore del management il rapporto con gli
azionisti e il mercato. O ancora se tornassero nostalgie da antichi
patti di sindacato. Quello di Mediobanca oggi è solo una sorta di patto
di consultazione. Il passaggio è delicato soprattutto per Generali che
sperimenta per la prima volta una lista del consiglio. L’incertezza si è
già riflessa sul management. Hanno lasciato recentemente Trieste,
Frederic de Courtois e Tim Ryan per andare rispettivamente da Axa e
Natixis.
il colosso degli occhiali
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