Il «caso» Generali: la governance alla prova del mercato
L’asse
Lungo l’asse tra Milano e Trieste si consuma non solo l’ennesimo scontro di potere ma si svolge una sorta di prova di maturità dell’intero sistema finanziario italiano. Negli ultimi anni, bisogna essere franchi, sul piano della governance, in Italia sono stati fatti molti passi avanti. È vero che il voto di lista esiste di fatto solo da noi ma ha consentito di rappresentare anche le minoranze. I fondi giocano un ruolo chiave, anche se è difficile distinguere tra attivisti e un po’ più pazienti. La trasparenza è in certi frangenti persino superiore a quella del mondo anglosassone (per esempio l’obbligo per le quotate di pubblicare il verbale integrale delle assemblee); la disclosure sulle remunerazioni in diversi casi più elevata. Ma non è sempre un bene. Così per quanto riguarda la disciplina delle operazioni con parti correlate o le partecipazioni rilevanti. Ma nel Regno Unito e negli Stati Uniti, per la lista del consiglio, il mandato è annuale e ogni membro è votato singolarmente. Ciò che avverrà nelle scelte future di alcuni grandi istituzioni sarà importante per verificare il livello dei profili professionali, ancora più essenziali in un contesto di sostenibilità, rispetto delle parità di genere e delle competenze specifiche alla vigilia di cambiamenti, anche tecnologici, del mondo della finanza. Non è più, come un tempo, una questione di salotti e di galassie romanticamente autoreferenziali. Ma qualcosa di più che riguarda l’intero Paese, la sua immagine complessiva. Ormai gli stakeholder sono tutti i cittadini. Anche gli stranieri.
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