Dalle tasse allo ius soli, perché Letta vira a sinistra
Federico Geremicca
Lo ius soli: un coro di fischi. Il voto ai sedicenni: risatine contenute. La tassa di successione: i soliti comunisti. E ora perfino la proroga del blocco dei licenziamenti: provocatori, sleali e schiavi della Cgil. Diciamo la verità, Enrico Letta è alla guida del Partito democratico da settanta giorni e sembrerebbe non averne azzeccata una: polemiche (interne ed esterne), obiezioni, vere e proprie stroncature. E invece – magari – sotto sotto lui è contento. Non dei risultati concreti strappati in sede di governo, evidentemente, ma del lavoro avviato per profilare in qualche modo il suo partito, ritrovando il senso di una missione il cui carattere s’è perso nel tempo. È quello che da anni (vogliamo dire dalla morte dell’Ulivo?) viene chiesto a ogni segretario del Pd all’atto della sua elezione. Non c’è riuscito nessuno. E talvolta non ci sono riusciti in maniera così inappellabile che molti degli ultimi segretari ad averci provato hanno addirittura abbandonato il partito (Epifani, Bersani e Renzi) e altri hanno giurato che non lo faranno più (Veltroni, Franceschini e Zingaretti).
Ci poteva provare – vien da dire – solo chi mancava dal Pd e dall’Italia da un po’ di anni. Letta ci sta provando: scoprendo, giorno dopo giorno, quante siano le difficoltà. La prima è strategica, anche se non ci si pensa più: ma che rotta si può dare a un partito che ha già perso prima la sua “ala sinistra” (Bersani, D’Alema e gli altri) e poi quella “destra” (Calenda e Renzi)? La seconda è tattica, ed è evidente: ci sono momenti migliori – che stare al governo con Berlusconi e Salvini – per provare una operazione di rilancio già complessa di per sé. La terza, potremmo definirla genetica: la pax lettiana ha già le ore contate, visto che le correnti (“Ho vergogna del nostro dibattito”, le maledisse Zingaretti) stanno ricominciando ad alzare i toni e le pretese. Enrico Letta per ora finge di infischiarsene, come da copione. E a testa bassa batte la sua strada.
In verità, quando la rialza per guardarsi intorno, a volte riesce perfino a cogliere immagini che un po’ lo rincuorano. Guarda Matteo Salvini inseguito dalla Meloni, e pensa che non è che poi stia messo così meglio. Oppure osserva Giuseppe Conte, alle prese con una rifondazione della quale non si intravede più il senso: sistemato molto male anche lui. Il panorama, insomma, induce a qualche speranza: fenomeni in giro non se ne vedono. Del resto, se ce ne fossero, Mario Draghi sarebbe in giro per il mondo a tenere remunerate conferenze… Già, “SuperMario”. Rapporto complicato. Equilibrio difficile. Letta, naturalmente, non è il solo a “piantare bandierine”, anche Salvini lo fa (e perfino di più): ma al leader democratico sembra che il premier, col capo leghista, sia più paziente, dialogante. La verità è che la rispostaccia ricevuta in materia di giovani e tassa di successione («Non è il momento di prendere soldi ma di darli») non gli è andata granché giù. Che intende il premier? Dipende a chi prendi e a chi li dai, quei soldi. Ma poi i modi, insomma… Letta è stato capo del governo e più volte ministro, non proprio un neofita: eppure si è sentito frettolosamente liquidare con una battuta da manualetto Bignami.
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