La guerriglia dopo il no di Mattarella
Montesquieu
Sergio Mattarella non corrisponde al prototipo dell’uomo politico che dice il contrario di quello che pensa. Questo suo connotato, un pregio nella vita ordinaria, un limite in quella pubblica, colloca la sua cifra politica al livello della stima, della affidabilità, della lealtà, assai più che a quella della abilità di manovra, del potere in senso classico. Gli si deve credere, fino a prova del contrario, fatto salvo il suo inossidabile senso dello Stato e dell’interesse generale. Il consenso straordinario al suo mandato, l’amplissimo favore per una replica, dovrebbe promuovere questo connotato come un tassello fondamentale nella valutazione dell’attitudine al ruolo: l’ultimo requisito che la politica di ieri e di oggi mette in campo nella scelta dei candidati a qualsiasi ruolo, che si tratti di nomine o elezioni. Si parte, e ci si ferma, a elementi occasionali e superficiali, quali la popolarità, la prevedibilità, la gestibilità. Tra i pochi meriti che questa fase politica è incline a riconoscere a Matteo Renzi, andrebbe inserito quello di avere portato alla soglia dell’elezione presidenziale del 2015 due personalità, lo stesso Mattarella e Giuliano Amato, le cui doti intellettuali, culturali, di competenza e autonomia mettono in ombra una scarsa propensione soggettiva al comando, di un partito o di una corrente.
Quegli anni di riposo futuro, con ogni probabilità, hanno il prezzo di otto mesi, i prossimi, più animosi e turbolenti di quanto sarebbero comunque stati. Soprattutto gli ultimi sei, quelli in cui la Costituzione disarma il capo dello Stato del proprio potere più penetrante, lo scioglimento delle Camere. E lo disarma per evitare che quel potere in quel frangente possa essere usato per la propria rielezione. La realtà si dimostra talora più edificante delle cautele e delle previsioni. Saranno sei mesi di guerriglia politica e parlamentare, per tutto quanto si dipana intorno alla certezza dell’elezione di un nuovo capo dello Stato: la durata di un governo così straordinario, la data delle elezioni, la capacità di resistenza dei consensi presunti dei sondaggi. Il destino del talento eccelso di Mario Draghi, tanto eccelso da consigliarne lo spostamento là dove il suo curriculum appare più ordinario, meno preciso. Tutto sommato, le cose che meno preoccupano sono la durata e le conseguenze della pandemia. Il consenso, un tempo strumento per il raggiungimento dei propri fini, è divenuto fine per che fa politica, e quindi una droga che crea indomabile dipendenza. Sarà guerriglia tra maggioranza e opposizione, la più fisiologica e tutto sommato la meno accesa; dentro la maggioranza, per la presenza di infiltrati a fini di sovvertimento della pacifica convivenza; dentro la coalizione di destra, che sarebbe bello poter chiamare conservatrice. Forse la più virulenta, quest’ultima: se solo si pensa a quanto di astiosa concorrenza emani dalla vicenda della presidenza del Copasir, e dai suoi inquietanti sottintesi istituzionali. Quanto alla coalizione di sinistra, che sarebbe bello poter chiamare progressista, tutti all’uscita del tunnel, con la curiosità di vedere che cosa rimane, che cosa è diventato, quante cose è diventato il Movimento 5 Stelle. Fenomeno recente quanto glorioso, visibile a occhio nudo oramai solo nelle aule parlamentari.
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