Bruno Vespa: “La mia vita Porta a Porta, ma l’ultima passione è il vino”
Michela Tamburrino
Ha tanto dell’abruzzese Bruno Vespa. Quei caratteri incisi nelle asperità montane. Chiusi, guai a mostrare troppo, gentili senza darlo a vedere, permalosi più del necessario, concreti e attaccati alla loro terra poco generosa. Bruno Vespa nasce a L’Aquila dove fa 364 giorni di freddo e uno di “frescu”, e da dove parte con il sogno del giornalismo il concorso Rai, vinto, ed è subito Roma e il telegiornale unificato, «dove già mi avrebbero voluto fregare. Ero arrivato primo, potevo scegliere, ma con la scusa della bella voce mi volevano dirottare alla radio, che amo molto ma non era quello il mio desiderio».
Vespa, tanta gavetta ?
«Appena assunto fui mandato sui fatti importanti, piazza Fontana, l’arresto di Valpreda. E, ancora, la diretta degli attentati di Fiumicino, facendo cose che oggi sarebbero impensabili, come spingermi fino all’aereo sulla pista pieno di passeggeri il giorno dopo i fatti. E poi il sequestro Moro, Paolo VI, il presidente Leone dimesso». Dalla conduzione alla direzione del Tg1.
«È bellissimo essere direttore ma non lo rifarei, si perde un’infinità di tempo in questioni burocratiche e sindacali. Pensi che non volevo neppure fare l’intervista a Saddam Hussein, ma lui chiese il direttore o nessun altro».
Un’intervista storica. Anche per le polemiche che ne venirono. Che impressione le fece Saddam?
«Un uomo carismatico, un vero leader. Io ero latore di un messaggio personale che gli mandava il Papa, eravamo a ridosso della prima guerra del Golfo e mentre io gli parlavo, Del Noce che era con me gli chiedeva il nome del suo sarto di Parigi. In effetti era elegantissimo».
Perché tante polemiche?
«Fu un’intervista fatta a dispetto del nostro Governo che non voleva andasse in onda. Io mi impuntai e da lì divenni il baluardo della libertà e della sinistra… Se lo immagina? Mi è successo di vedere di tutto e anche questo. Mandai in onda l’intervista in seconda serata, andò benissimo».
Da direttore è stato tradito?
«Faccio prima a parlare di chi non mi ha tradito. In compenso tutti se ne sono pentiti. In Rai nulla mi stupisce. Ho visto legioni di democristiani diventare comunisti, ho visto insospettabili spuntare fuori dal nulla e dichiararsi di destra, quando la destra vinceva alle urne».
Che ne pensa di un cambiamento radicale della governance Rai? Ci crede ai partiti che si fanno da parte?
«Spero che la Rai resti pubblica, controllata dal Parlamento. Sai che cosa vogliono, da un privato puoi aspettarti di tutto. Magari sarebbe auspicabile una struttura più agile, una fondazione. Ne parlavo con Fassino quando sembrò che De Benedetti volesse entrare in partita. Gli dissi: “Se vi infastidite per un titolo sul giornale, che cosa accadrebbe per un servizio del Tg?”».
E siamo arrivati a “Porta a Porta”.
«Che nacque per sbaglio. Ero andato a Palermo per la prima udienza del processo Andreotti e in albergo, accendendo la televisione, sentii che avevano dato una striscia di seconda serata quotidiana a Carmen Lasorella. Io che mi ero dimesso senza chiedere nulla e senza avere nulla, andai da Letizia Moratti, che allora era presidente della Rai, e le dissi che avrei fatto valere i miei diritti. Così divisero le serate tra me e Lasorella e il 22 gennaio del 1996 debuttò Porta a Porta. La mia seconda vita».
Si aspettava che fosse così longevo?
«No, per niente. Intervistando Santoro ricordavo che allora nessuno ci credeva. Su Rai1 un programma dai toni pacati mentre a Samarcanda scorreva il sangue, eravamo convinti di durare una sola stagione».
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