La forza di chi sa spendere (e sa controllare la spesa)

di Alberto Mingardi

La politica è sempre, in qualche misura, teatro. In passato, però, le forze politiche concentravano le battaglie identitarie nel campo della politica internazionale. Le politiche economiche, almeno nella cosiddetta Seconda Repubblica, erano materia affrontata con un certo pragmatismo. Per intenderci, il ministro che fece la liberalizzazione del commercio al dettaglio oggi è un esponente di Leu (Pierluigi Bersani) mentre un micro-antesignano del reddito di cittadinanza era la social card, voluta dal governo Berlusconi. Poi si è aperta la stagione della politica dell’identità: «diritti» a sinistra, immigrazione a destra. Cause molto care a piccole minoranze attive, ma lontane dal portafoglio della gente.

Col governo Draghi il gioco è cambiato. In questi giorni i partiti hanno misurato le distanze su due temi: blocco dei licenziamenti, semplificazioni e codice degli appalti. Letta e Salvini avevano già incrociato le spade sull’immigrazione. Non è, oggi, un tema sufficiente per presidiare i rispettivi elettorati. Le riaperture stanno procedendo senza grossi contraccolpi sotto il versante dei contagi, e non sono più materia di scontro. L’economia è diventata quasi per necessità il campo di battaglia.

Rischiamo grosso: di sprecare, cioè, un’occasione per venire alle prese coi problemi più autentici del Paese. Quelli che resteranno, dopo che si sarà asciugata l’inondazione dei quattrini del Recovery Fund.

Le semplificazioni in Italia sono una tela di Penelope. A parole, hanno semplificato tutti: destra e sinistra. Nei fatti continuiamo ad avere troppe leggi, che sono un groviglio di rimandi alla legislazione precedente, anche al netto delle norme che dobbiamo recepire dall’Unione europea.

Questa volta il problema specifico è come ridurre i tempi di realizzazione delle opere pubbliche. La politica italiana vede il Recovery come una pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno, ma dovrebbe anche sapere che avremo gli occhi di tutt’Europa puntati addosso. Il nostro Paese ha scelto una strategia più aggressiva, e più rischiosa, di altri. Siamo per ora gli unici che utilizzeranno sia i sussidi che i prestiti di Next Generation Eu, ai quali sommiamo altri 30 miliardi di debito «straordinario» che abbiamo scelto di fare.

Se il debito sarà «buono» o meno, lo dirà la qualità degli investimenti. Ma perché si possa ragionare sulla qualità degli investimenti bisogna mettersi in condizione di spendere sulla base di criteri economici. C’è stato invece un fuoco di fila contro la liberalizzazione del subappalto e le gare al massimo ribasso.

Opporsi ai subappalti significa, di fatto, cercare di restringere il mercato: una impresa, soprattutto se relativamente «nuova» e «giovane», non avrà all’interno tutte le competenze necessarie per svolgere un certo lavoro e in particolar modo per partecipare a una gara importante. Soprattutto in un Paese come il nostro, che ha tante e rilevanti barriere alla crescita dimensionale delle imprese, la soluzione è quella di geometrie variabili, costruendo collaborazioni ad hoc che possano servire a realizzare un certo progetto. Invece nel dibattito il subappalto è visto come un regalo agli «sfruttatori», e peggio ancora un’occasione di infiltrazioni mafiose.

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