Procure e reati, le vere priorità
Vladimiro Zagrebelsky
Le commissioni istituite dalla ministra Cartabia lavorano sui testi presentati al Parlamento dal precedente ministro Bonafede. Non si tratta di proporre ritocchi, ma modifiche e integrazioni impegnative, che meritano studio approfondito dopo la prima positiva impressione. Diversi tra i temi affrontati sono molto delicati, per le implicazioni di principio su senso, funzionalità e limiti delle procedure civili e penali, per non parlare del Csm. La commissione del presidente Giorgio Lattanzi propone di modificare una disposizione già presente nel disegno di legge Bonafede, suscettibile di sollevare polemiche. Si tratta della questione delle “priorità” nella trattazione delle notizie di reato e dei procedimenti penali che ne nascono. Vedremo di che modifiche si tratta. Ma intanto va detto che la serietà del tema deriva soprattutto dal fatto che esso insiste su un terreno presidiato dall’art. 112 della Costituzione. Reagendo alla discrezionalità, nemmeno controllata dal giudice, propria del sistema precedente, esso obbliga il pubblico ministero a esercitare l’azione penale, escludendo valutazioni di opportunità caso per caso. Da tempo – da quando all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso qualche procura della Repubblica iniziò a razionalizzare la propria gestione e a stabilire criteri di priorità – la questione è oggetto di discussioni, sospetti e accuse feroci, soprattutto nell’ambito della magistratura delle procure. Inammissibile sembrava che si rivelasse un segreto della corporazione: si facevano, si dovevano far scelte. Poi, per forza di cose, quelle “circolari” sono divenute abituali e anche la legge ora detta criteri e chiede deliberazioni in proposito, ma ancora in modo incompleto. Occorre chiarezza. Troppi equivoci e silenzi nascondono i veri termini della questione. Innanzitutto va riconosciuto che il problema non sono le “priorità”. Lo sono invece le conseguenti “posteriorità”, quando, come è nella realtà, non si tratta di posporre o ritardare di un poco, ma di rinviare per sempre. Un “mai” che si realizza meglio nella prima fase del procedimento – quella della procura della Repubblica – o peggio nelle fasi del tribunale, della Corte d’appello o di Cassazione. In questa seconda ipotesi oltre alla mancata conclusione, si ha grave spreco di risorse, danno per gli imputati, illusione e perdita di tempo per le possibili vittime. Cosicché, contrariamente a quanto solitamente si crede, è meglio fermare i procedimenti in procura della Repubblica, piuttosto che farli massicciamente prescrivere in seguito, con inutile movimento nell’ufficio del pubblico ministero. Poiché l’esercizio della azione penale, per non essere apparente e solo dar mostra di produttività nelle procure, deve potersi concludere con sentenze di assoluzione o di condanna. Meglio poche di assoluzione, perché in mancanza di prove serie, non bisognerebbe portare imputati davanti ai giudici.
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