Procure e reati, le vere priorità
Quando nel programmare l’attività degli uffici giudiziari si valutano le risorse disponibili, lo sguardo non deve essere parcellizzato alla singola fase di giudizio, ma complessivo, diretto alla completa “catena di montaggio”, senza intasare l’ufficio successivo nella sequenza procedurale. E si tratta di un impegno che riguarda il titolare dell’ufficio del pubblico ministero, responsabile della sua direzione e organizzazione. Se invece si ignorano le esigenze delle fasi successive a quella iniziale, si costringono poi i giudici a scegliere quali processi trattare (prima) e quali dopo (a prescrizione maturata). Ciò che ora avviene, è altamente improprio da parte dei giudici e, data la massa di procedimenti, non potrebbe essere evitato con qualunque disciplina della prescrizione si adotti. Ma come e chi può stabilire le priorità/posteriorità, tra le tante ed eterogenee notizie di reato che raggiungono le procure della Repubblica, per possibili violazioni di una delle infinite e sempre più numerose ipotesi di reato create dal legislatore? Non si può credere si tratti di un esercizio solo tecnico giuridico. È piuttosto un momento di definizione della politica penale, da decidere in funzione della realtà sociale e criminale territoriale. Certo le indicazioni che vengono dalla Costituzione sono importanti, ma spesso non decisive poiché si tratta di mettere a confronto valori ed esigenze tutti costituzionalmente rilevanti. Si tratta cioè di scegliere. Concorrono quindi necessità diverse e non meccanicamente componibili: quelle della politica in senso stretto (il Parlamento) e quelle che si riferiscono alla autonomia della magistratura, assicurata dall’art. 104 della Costituzione. Quest’ultima risponde a un carattere fondamentale dello Stato di diritto e tende a evitare che prevalgano interessi di parte, foss’anche della parte maggioritaria del Parlamento. Ecco allora che la soluzione adottata dalla commissione Lattanzi e proposta alla ministra si rivela equilibrata. Integrando e modificando ciò che si trova nella proposta Bonafede, essa prevede che le linee generali siano periodicamente indicate dal Parlamento, ma poi specificate e definite nelle sedi giudiziarie territoriali. Lì si terrà conto delle risorse disponibili in tutti e ciascuno degli uffici giudiziari che intervengono nella trattazione dei procedimenti, fino alla sentenza definitiva. Csm, uffici giudiziari e avvocati dovrebbero fornire indicazioni sulle risorse utilizzabili e il loro uso ottimale, in modo da consentire il buon andamento complessivo degli uffici (articolo 97 della Costituzione). In sede locale sarebbe da sottolineare la necessità di coordinamento delle linee organizzative in tutto il distretto della Corte d’appello e sarebbe da suggerire una procedura di consultazione sul territorio, che veda come interlocutori la Regione, il Comune, il prefetto. Un simile allargamento delle voci chiamate ad esprimersi e a suggerire è necessario. Le nomine dei capi delle procure della Repubblica, come di tutti gli uffici giudiziari, si presentano come legate a una generica, asettica valutazione di “merito” dei candidati concorrenti. Ma ciascuno è diverso dall’altro e, poco o tanto, farà diversamente una volta nominato. Non lo si può lasciar solo, isolato, se non a prezzo di abbandonare al caso la politica penale nel territorio. Naturalmente bisognerebbe essere chiari: i criteri di priorità sono linee di tendenza orientativa da tradurre in opportuna destinazione delle risorse. Essi dovrebbero essere in qualche misura variabili a seconda del movimento delle risorse o delle emergenze criminali che possono verificarsi. Nella proposta Bonafede si dice che dovrebbero essere trasparenti. Vuol dire di applicazione meccanica, senza margini? Così sarebbe impossibile e si entrerebbe in collisione con l’idea stessa sottostante la previsione legislativa di reati. Non potrebbero quindi quelle direttive implicare una qualche promessa che l’ufficio del pubblico ministero non procederà mai per i reati “non prioritari”. Un problema, infine, non è considerato nelle varie proposte. Sembra che si dia per scontato che i criteri adottati dagli uffici debbano essere pubblici (ovviamente lo sono le linee indicate dal Parlamento). Ma l’esperienza prevalente negli altri Paesi è quella della segretezza. Per non dare il via libera, almeno per un tratto di tempo, a chi volesse darsi ai reati “non prioritari”.
LA STAMPA
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