Draghi può riuscire dove Monti si arenò
Forse la differenza è tutta lì: Mario Monti nel 2011 e nel 2012 dovette tagliare, recuperare quattrini, eravamo reietti in un’Europa che meditava di chiedere il Partenone in pegno alla Grecia prefallimentare, piantonati dal sorriso stronzetto rivolto da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy a Silvio Berlusconi, e Monti sembrò subito l’alto contabile alle dipendenze della spietatissima coppia, incaricato di mettere in riga un paese di allegri e permalosi dissipatori. La diagnosi non era tanto campata in aria, ma la terapia era terra terra. Mario Draghi, all’opposto, i soldi li riceve ed è semmai il guardiano della spesa, non del risparmio.
Il panorama è acceso da tutt’altra luce: Merkel c’è ancora, ma al crepuscolo di una lunga e contradditoria carriera, al culmine della quale si è convertita all’idea di Draghi del debito buono: non per aver ricevuto nottetempo la visita dell’Arcangelo Gabriele, ma perché s’è resa conto che con il Covid non tracollavano la Grecia o forse l’Italia, ma tracollava l’Unione, ed essere benestanti in una comunità di affamati è poco redditizio (guarda un po’ che succede, talvolta, con la logica del profitto: si intuisce il necessario di un abbozzo di solidarietà). Al posto di Sarkozy c’è Emmanuel Macron, già col binocolo puntato sulle presidenziali dell’anno venturo. Draghi non ha servaggi da subire, come ampiamente previsto è il totem cui l’Unione si aggrappa per guardare oltre lo stasera, e infatti l’idea di ristrutturare il debito dei paesi poveri extraeuropei, di colpo interessante, magari sottrarrà la faccenda dell’immigrazione al bipolarismo sciocchino del blocco navale contro l’accoglienza indiscriminata e sentimentale (ma tu guarda questa logica del profitto in quanti modi si declina).
Ricordo gli esordi di Monti in Parlamento: se io sono qui è perché voi avete fallito, disse con un sovrapprezzo dell’alterigia con cui all’inizio riuscì a imporsi. Monti fu – per colpe sue soltanto in parte minima – il detonatore del populismo che aspettava di esplodere. Il 2012 non è semplicemente l’anno dei tecnici a Palazzo Chigi, è l’anno del Movimento cinque stelle che prende il 18 per cento alle regionali siciliane e a Parma conquista il primo comune. Nove anni dopo, il populismo grillino è alleato del nuovo (presunto, molto presunto) tecnocrate, dopo essere transitato dall’opposizione scalmanata al governo psichiatrico con Matteo Salvini a quello della redenzione europeista col Pd, e ormai è costretto onestamente (guarda come l’avverbio ci sta bene stavolta) a riconsiderare ogni balordaggine giovanile, fino alla epifanica lettera antigiustizialista di Luigi Di Maio pubblicata ieri sul Foglio.
C’è bisogno di aggiungere una considerazione sulle diffuse e sopite smanie no-euro?
Poi naturalmente Draghi ci ha messo del suo. Sarebbe bello se qualcuno di competente approfondisse le differenze culturali fra il gesuitismo milanese di impronta giansenista di Monti e il gesuitismo romano ed ecumenico di Draghi, e non so se lì risieda l’indole del secondo, che a differenza del primo non cede mai alla tentazione di umiliare gli interlocutori, persino quando se lo meriterebbero. È come se Monti dovesse imporsi al mondo, mentre il mondo ha imposto a Draghi un ruolo, e lo si vede nelle sue scarne e non frequenti conferenze stampa, opposte a quelle lunghe e stentoree di Monti. Il risultato, anche perché Monti era attorniato da partiti di ancora qualche robustezza, e animati da spirito di rivincita, è che il governo di allora alla lunga portò a casa soprattutto la riforma delle pensioni di Elsa Fornero, fondamentale, al di là degli esodati, ma molto dolorosa. Draghi si avvia alle sue numerose riforme sull’onda di gloria della pandemia calante e delle vaccinazioni crescenti, in una primavera finalmente di sole e di semilibertà. Se la gioca con partiti ben più disarmati, felici di raccattare, sui licenziamenti, sugli appalti, tutto quanto è loro necessario sventolare giusto per giocarsi il consenso.
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