Il tecnico e i silenzi del politico

Massimo Cacciari

Improvvisate e sortite con cui i leader politici, mentendo a loro stessi, danno al gran pubblico l’impressione di marcare stretto Mario Draghi impediscono di vedere chiaro sui mutamenti di fondo nei rapporti tra politica, economia, tecnica, che proprio nel nostro Paese stiamo sperimentando forse con radicalità ancora maggiore che altrove. L’affannosa e spesso patetica ricerca di emergere con qualche battuta “identitaria”, a destra come a sinistra, l’agitarsi a volte poco “educato”per trovare un posto alla tavola dove Draghi decide, sono espressione di una svolta che forse è giunta a un punto irreversibile, la cattiva recita di un dramma autentico. I poteri fondamentali del nostro tempo non si limitano più a “sentire”, ma ormai dichiarano apertamente la propria insofferenza nei confronti delle procedure decisionali, direi della stessa logica, proprie del sistema rappresentativo democratico nel cui ordine i Paesi europei, con grande fatica, si sono andati organizzando nel corso del secondo dopoguerra. Occorrerà finirla di tenere la testa sotto la sabbia. Quello che oggi avviene in Italia va analizzato senza pregiudizi, senza paraocchi ideologici, senza nostalgie, per quello che è, piaccia o no: è la tendenza prepotente all’accentramento delle decisioni fondamentali in organismi tecnico-amministrativi, formati da competenze le quali, per ovvi motivi, non potrebbero mai nascere spontaneamente dall’agone politico, o essere espressione di qualche maggioranza parlamentare. Competenze che si ritengono necessarie per affrontare la permanente crisi in cui versa il nostro mondo. Ora, il Tecnico può produrre soltanto ciò che appartiene alla sua natura.

Come un cavallo non potrà mai generare un elefante, così il Tecnico, in quanto tale, non potrà mai produrre “grandi riforme”, qualunque sia il loro colore. Il Tecnico amministra la situazione di fatto, sistema i conti sulla base degli equilibri dati tra istituzioni e interessi; mai i tecnici sono stati novatores. Quando vogliono diventarlo, combinano solo pasticci. Lo strapotere di cui essi ora godono ha un significato storico-culturale molto preciso e di immensa portata: che il Politico non riesce più a costruire alcun fine, che non dispone più di alcuna idea di portata strategica intorno a cui definire finalità innovative. E diviene allora senso comune che le cose debbano continuare così, solo amministrate meglio, razionalizzate. Ed è molto, anzi: moltissimo, è probabilmente ciò che tutti ormai chiediamo. Se i maggiori problemi sono quelli di gestire la trasformazione a green economy, di costruire rapidamente grandi infrastrutture, di gestire senza troppi traumi, con qualche paracadute assistenziale, le nuove forme di disoccupazione, chi potrebbe reggere il timone meglio del Tecnico? Crede qualcuno che nell’Unione europea le cose funzionino diversamente? Tempo fa Piketty e altri stesero un documento-appello caduto nel vuoto dove si mostrava con analitica precisione come tutte le decisioni della Comunità avvenissero, di fatto, sulla base di dossier, input, “raccomandazioni” e documenti vari redatti da commissioni formate da alti dirigenti delle Banche centrali, della Bce, dei ministeri dei diversi Stati. Le grida della demagogia populista sono inversamente proporzionali al suo effettivo potere, state pure tranquilli democratici di tutta Europa.

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