Palazzo Chigi e la guerra di spie, lo 007 Mancini costretto ad andarsene

Francesco Grignetti

Si chiude nella maniera forse più indolore, tranne che per il diretto interessato, la parabola di Marco Mancini ai servizi segreti. Su forte sollecitazione dall’alto, che in questo caso vuol dire il premier Mario Draghi attraverso le persone del sottosegretario Franco Gabrielli e della nuova direttrice Elisabetta Belloni, lo 007 che parlava ai politici va in pensione. Mancini, a quel che risulta, non frequenta già più il suo ufficio presso il Dipartimento informazioni e sicurezza. Sta smaltendo le ferie arretrate. E a metà luglio scatterà il pensionamento. Scelta quasi obbligata, dopo le forti polemiche delle ultime settimane e dopo che il Copasir aveva chiesto ufficialmente che si aprisse sul suo conto un’indagine interna.

Marco Mancini, classe 1960, uno che ha scalato il cielo degli apparati, dopo aver iniziato la carriera come brigadiere dei carabinieri nel lontano 1979, ha ormai quarantadue anni di servizio alle spalle. Può andare in pensione. E così accadrà. Ove mai avesse recalcitrato, gli avrebbero fatto notare che nell’intelligence vige una regola: il rapporto fiduciario. Se cade, e in questo caso la fiducia era caduta, il soggetto può essere restituito all’amministrazione di provenienza su due piedi e senza appello. Nel suo caso, sarebbe rientrato nella Benemerita, da dove era uscito nel 1985 per entrare nel Sismi: non avrebbe avuto scampo nemmeno lì, tra i suoi antichi colleghi, e sarebbe dovuto andare in pensione ugualmente. Ma senza i vantaggi della pensione come è per un dirigente dei servizi segreti. Mancini se ne va, dunque. Festeggiano i suoi tantissimi nemici nell’ambiente. Amici, gliene sono rimasti davvero pochi.

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