Ilva, ecco perché rischia di saltare il salvataggio miliardario a spese dello Stato. Tra veleni, liti e conti in rosso

di Vittorio Malagutti e Gloria Riva

Nel poker dell’Ilva di Taranto, una partita miliardaria sulla pelle di un’intera città e di migliaia di lavoratori, siamo arrivati all’ultima mano, quella che deciderà il destino della più grande fabbrica d’Italia. Tra i due giocatori al tavolo, però, ce n’è uno, lo Stato, che è costretto a giocare a carte scoperte, mentre l’altro, la multinazionale Arcelor Mittal, può permettersi di bluffare. Ironia della sorte, i due avversari si sono appena messi in società per gestire il rilancio dell’acciaieria che ormai da anni naviga senza una rotta precisa e rischia di arenarsi tra perdite e debiti. Presentato come una svolta risolutiva, l’intervento pubblico ha invece moltiplicato le incognite sul futuro dello stabilimento e dei suoi 10 mila dipendenti. Senza contare che ogni possibile soluzione resta appesa alla sentenza del Consiglio di Stato sul destino dell’area a caldo, il cuore dell’impianto pugliese di cui l’anno scorso il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha disposto la chiusura a tutela della salute pubblica minacciata dalle emissioni inquinanti. Lo scandalo

Ancora una volta, la trama infinita dell’acciaieria tarantina mette in scena un concentrato dei mali d’Italia, dall’affarismo rapace alla giustizia deviata, come dimostra il recente verdetto del processo “Ambiente svenduto” con il lungo elenco di condannati per la “mala gestio” dello stabilimento. E allora non sorprende che in questa storia abbia giocato un ruolo anche l’avvocato Piero Amara, sulfureo protagonista di complotti veri e presunti tra toghe e faccendieri vari, dal caso Palamara ai falsi dossier dell’Eni fino alla fantomatica Loggia Ungheria. Amara, che quattro anni fa venne reclutato tra i consulenti dell’amministrazione straordinaria di Ilva, è stato arrestato martedì 8 giugno perché coinvolto in un’inchiesta della procura di Potenza che riguarda, tra l’altro, presunte irregolarità nelle indagini sull’inquinamento dell’acciaieria di Taranto condotte dal procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo.


È in questo contesto che Mario Draghi ha dato il via al salvataggio di quello che dovrebbe tornare a essere il polo pubblico dell’acciaio. Vista da fuori la situazione sembra paradossale. Invitalia, una holding controllata dal governo, ad aprile ha sborsato 400 milioni di euro per comprare il 38 per cento del capitale (con il 50 per cento dei diritti di voto) delle Acciaierie d’Italia, che poi sarebbe il nome nuovo della vecchia Ilva. L’operazione, però, è già finita in stallo, perché i due soci hanno cominciato da subito a litigare. L’azionista pubblico vuol tenersi le mani libere e come di prassi in questi casi non ha dato una manleva sui conti della gestione precedente, quella targata Arcelor Mittal. Senza un accordo sul bilancio 2020, la nuova società non decolla. Il consiglio di amministrazione, sei membri in tutto, tre per parte, non si è ancora insediato e quindi resta alla porta anche il presidente designato Franco Bernabé, scelto da Mario Draghi per sciogliere uno dei nodi più intricati della politica industriale del Paese. Timeline

Le due parti sono al muro contro muro. Il mercato dell’acciaio è ripartito. La domanda è in crescita costante, ma l’andamento reale dell’Ilva, che già nel 2019, prima della crisi Covid-19, era finita in rosso di 865 milioni, resta un segreto ben custodito dai vertici del gruppo controllato dalla famiglia indiana Mittal. Una multinazionale che dall’alto dei suoi 50 miliardi di ricavi annui può permettersi di trattare Taranto come una delle tante province dell’impero. «La speranza è che nella seconda metà dell’anno si acceleri sulla ripresa per riuscire a produrre almeno 5 milioni di tonnellate di acciaio contro i 3,3 milioni del 2020», è l’augurio del sindacalista Roberto Benaglia, segretario della Fim-Cisl.

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