Ilva, ecco perché rischia di saltare il salvataggio miliardario a spese dello Stato. Tra veleni, liti e conti in rosso


Intanto, però, alle Acciaierie d’Italia, il mese di giugno è iniziato con una nuova richiesta di cassa integrazione per 4 mila dipendenti. Attorno all’Ilva la tensione è fortissima. Da tempo ormai i lavoratori denunciano tagli pesanti negli investimenti sugli impianti, a cominciare da quelli per la sicurezza e l’ambiente. E, nel frattempo, la preoccupazione e le proteste hanno superato il livello di guardia anche tra i fornitori. L’Espresso ha potuto verificare che sono decine le aziende dell’indotto della fabbrica pugliese che lamentano un netto peggioramento nelle condizioni di pagamento. Si moltiplicano le vertenze, anche legali, per fatture non pagate. Nei giorni scorsi le Acciaierie d’Italia sono state costrette a smentire con un comunicato ufficiale una fuga di notizie molto circostanziata che denunciava un’impennata dei debiti verso fornitori. Tutto questo avviene mentre entra in scena l’azionista pubblico, pronto a investire più di un miliardo, 400 milioni subito e altri 680 entro dodici mesi, per prendere il controllo di un’azienda che intanto, sotto la gestione di Arcelor Mittal, ha visto crollare la produzione e ha perso quote di mercato. Poco male per la multinazionale che nel frattempo ha puntato sugli stabilimenti del gruppo in giro per l’Europa, mentre l’Italia si trova a corto di un materiale strategico come l’acciaio, fondamentale per la ripresa del sistema Paese.


L’Ilva è il «classico caso in cui il mercato fallisce e solo lo Stato, in ragione dell’interesse strategico, può assumersi questo rischio», ha detto di recente il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. A questo punto però, con il bilancio che è diventato materia del contendere, non è facile neppure capire a quanto ammonti davvero il rischio che lo Stato dovrebbe assumersi, per usare le parole di Giorgetti. Tanto che nelle fila dell’esecutivo aumentano dubbi e sospetti su un’operazione ereditata dal governo precedente, benedetta da Giuseppe Conte e gestita dal fidato Domenico Arcuri, ancora oggi al comando di Invitalia dopo aver perso la poltrona di commissario per l’emergenza Covid-19. Nuovi investimenti in tecnologie verdi per ridurre l’impatto ambientale, graduale aumento della produzione per arrivare a otto milioni di tonnellate annue, salvaguardia del posto di lavoro per i 10.800 dipendenti. Questi i punti principali dell’accordo annunciati il 10 dicembre scorso dall’allora ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, insieme al collega Stefano Patuanelli, titolare dello Sviluppo economico. Quel contratto doveva diventare il trampolino di lancio per una nuova collaborazione tra pubblico e privato con l’obiettivo dichiarato di rilanciare una volta per tutte la grande fabbrica privatizzata nel 1995. Nel giro di pochi mesi, però, l’alleanza è già in frantumi tra sospetti, misteri e reciproche accuse. Come si è arrivati a questo punto? L’ultimo capitolo della storia si apre nel marzo dell’anno scorso con la firma di un nuovo contratto tra i commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria e Arcelor Mittal. Quell’accordo aprì le porte all’ingresso dello Stato nel capitale dell’acciaieria e, d’altra parte, chiuse la vertenza con la multinazionale, che da novembre 2018 aveva preso in gestione l’impianto di Taranto salvo annunciare il recesso un anno dopo in seguito al ritiro del promesso scudo penale per i propri manager. Intervista

Spettatore interessato della vicenda era Banca Intesa che aveva a suo tempo investito 100 milioni per una quota del 5,56 per cento nel capitale della società a cui faceva capo la gestione l’acciaieria. L’istituto di credito era quindi l’unico socio di Arcelor Mittal. Un investimento a rischio? Tutt’altro. I documenti esaminati da L’Espresso rivelano che a dicembre 2020 la grande banca milanese ha incassato 111 milioni grazie alla vendita delle sue azioni, 11 milioni in più rispetto a quanto investito nel 2018. Intesa, che resta il principale creditore dell’ex Ilva, si è quindi sfilata appena prima dell’ingresso dello Stato nell’acciaieria, che, come detto, è stato annunciato a dicembre dello scorso anno, nove mesi dopo la prima intesa di marzo. Nove mesi vissuti pericolosamente, con la pandemia che gelava l’economia mondiale e la domanda d’acciaio ai minimi storici. La situazione appariva così grave che in ambienti industriali e tra i banchieri d’affari avevano preso consistenza le indiscrezioni che raccontavano di Arcelor Mittal disposta a pagare una sorta di penale al governo di Roma pur di abbandonare Ilva al suo destino. «Un miliardo di euro», questo il prezzo che la multinazionale avrebbe messo sul piatto per chiudere la sua avventura italiana.


Non è chiaro se il messaggio sia stato davvero recapitato a Palazzo Chigi. Di certo, alla fine, è stato il governo a offrire poco più di un miliardo per diventare il socio di comando delle Acciaierie d’Italia. La somma è stata fissata anche sulla base di una perizia tecnica commissionata da Invitalia al commercialista Enrico Laghi, diventato in questi anni l’uomo dappertutto delle varie partite tra Stato e mercato, con incarichi sul fronte Alitalia come su quello di Autostrade, che ha visto impegnato il professionista romano per conto dei Benetton. Laghi non era un nome nuovo neppure nella vicenda Ilva. Da commissario straordinario, nominato a gennaio 2015 dal governo Renzi, aveva gestito la tormentata procedura che consegnò ad Arcelor Mittal la gestione di Taranto, lasciando l’incarico solo ad aprile del 2019. Nell’arco di quattro anni, come risulta dagli atti giudiziari, Laghi ha partecipato più volte a riunioni in procura a Taranto per esaminare un possibile patteggiamento di Ilva in amministrazione straordinaria nelle inchieste in corso su reati ambientali.

Ad accompagnare Laghi c’era Piero Amara. Proprio lui, l’avvocato appena arrestato insieme al suo sodale Carlo Maria Capristo, il procuratore capo che aveva promosso quegli incontri, già allora molto criticati. Amara, Capristo, Laghi, l’ombra del malaffare e i veleni dell’acciaieria. Altro che transizione ecologica, la nuova Ilva è ancora ostaggio di un passato che non passa mai.

L’ESPRESSO

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