Sindaci, viaggio al termine della notte
Non si tratta di destino cinico e baro, né la situazione è conseguenza di difficoltà “tecniche”, amministrative, né deriva da crisi economico-finanziarie, che in qualche modo abbiano costretto a procedure sempre più centralizzate in materia fiscale, nella regolamentazione dei servizi e dei lavori pubblici. E neppure si tratta di miopia politica. L’affossamento del significato del ’93 è il frutto di una cultura, che la crisi della prima Repubblica lungi dal superare ha rafforzato. Nessuno, che mi risulti, ha analizzato Tangentopoli anche sotto questo profilo: la distruzione dei vecchi partiti si è consumata in un clima che più centralistico non sarebbe possibile immaginare, sotto l’impulso di un “potere” che per propria natura non deve tener conto di differenze e autonomie territoriali. Le forze politiche sorte dalla catastrofe si sono “commisurate”a questa situazione, secondo un modello di contrapposizione nazional-popolare tra due blocchi, al quale anche la Lega si è subito adeguata. E senza alcuna fatica, poiché in ciò esse si dimostravano fedeli eredi del centralismo parlamentaristico-ministeriale dominante nei partiti della prima Repubblica.
I sindaci, “allo sportello” rispetto ai cittadini, si sono sempre più trovati a essere il terminale di un’inflazione normativa “informe”, del perverso combinato disposto tra centralismo statale e micro-centralismi regionali, alle prese con leggi non solo confuse o “illeggibili”, ma pure contraddittorie, e alle prese con bilanci impossibili da rimediare senza gravare sulle tariffe dei servizi o sulla loro qualità. Era tendenza evidente già alla fine dello scorso secolo; contro di essa si levarono anche alcune “grida”. Qualche sindaco cercò di reagirvi. Ma furono tutte resistenze spazzate via. Burocrazie di ogni genere, norme e procedure da tutto dominate fuorché da una logica di scopo, misero fine alla “stagione delle Autonomie” prima ancora, in fondo, che nascesse. I partiti si fecero e disfecero in perfetta continuità su questo punto capitale: la politica si fa al centro, la classe dirigente la si forma nelle “camere” dove alloggiano i presunti capi, i territori e il radicamento sociale in essi seguono se seguono, optional, i sindaci non facciano i cacicchi. Le amministrative prossime future, più o meno sondaggi per vedere se Letta resiste, se Salvini vale più o meno della Melloni, in cui si confrontano nomi più o meno “inventati”, segnano il compimento di questa lunga marcia contro-riformistica. Più dovrebbe risultare evidente che l’azione politica, per tornare a essere autorevole, ha bisogno di effettiva rappresentatività, di radicamento territoriale, e più l’azione di governo si fa dirigistica fino al paternalismo; più la vita dei partiti si fa asfittica, meno comprendono che il loro ossigeno viene dall’impegno e dalla partecipazione alla base, dalla autonomia delle proprie strutture locali e regionali. Vecchio discorso, che sembrava un giorno dover entrare nello statuto stesso del Pd. Ma la cultura dei suoi gruppi dirigenti era quell’altra, l’opposta. Sarà in grado di cambiarla il Congresso che attendiamo come Godot?
LA STAMPA
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