Ruffini: «Ecco chi ci blocca nella caccia all’evasione: abbiamo i dati ma non siamo autorizzati a usarli»

di Daniele Manca

Ernesto Maria Ruffini dal gennaio del 2020 è stato richiamato alla guida dell’Agenzia delle Entrate dal secondo governo Conte. Nella prima esperienza alla guida del Fisco, chiamato dal ministro Padoan ai tempi del governo Gentiloni, aveva creduto nella tecnologia imprimendo una forte accelerazione alla digitalizzazione. Aveva cambiato volto e trasformato Equitalia, per essere poi sostituito all’arrivo della nuova maggioranza post elezione del 2018. Non è un incarico semplice quello di capo delle Entrate. Ruffini poi, ha dovuto sconfiggere una dura malattia dal suo ufficio, come rivelato dall’allora ministro Gualtieri, perché dalla sua struttura passavano i ristori agli italiani nel periodo più buio del Covid. Più del ministro delle Finanze, chi guida le Entrate rappresenta la persona delle tasse con tutte le implicazioni tipiche dell’Italia: elevata pressione fiscale, elevata evasione, elevate complicazioni. Tutte cose che Ruffini sa benissimo. Ha fatto per 20 anni l’avvocato tributarista iniziando nello studio di Augusto Fantozzi. Poi la scelta di passare dall’altra parte, confermato nel suo ruolo dal governo Draghi su indicazione del ministro Franco. Questi sono gli anni della fatturazione elettronica, del modello 730 precompilato e, da ultimo, degli scontrini elettronici e del modello IVA precompilato. Ma non parlategli di Fisco amico…

«Né amico, né nemico. Il Fisco deve essere equo ed efficiente», risponde al telefono dal suo ufficio di Roma.

Evidentemente non è né equo né efficiente perlomeno per la politica visto che i leader dei partiti fanno a gara per cambiarlo. Ma qualcuno la chiama per chiederle consiglio?
«Einaudi metteva in guardia dai consigli teorici, scaraventando dalla torre — in realtà, li gettava nella Geenna — quelli che definiva gli astratti dottrinari. Come Agenzia delle Entrate ci limitiamo a mettere a disposizione delle istituzioni la nostra esperienza pratica, affinché qualunque scelta il legislatore intenda adottare, possa avere una sua concreta e semplice applicazione e non rimanere solo sulla carta. In altre parole, non si dovrebbe inseguire ad ogni costo la perfezione teorica assoluta, giacché il risultato potrebbe essere un’assoluta imperfezione pratica».

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