Le risposte che il Paese non riceve dai partiti
di Federico Fubini
Ogni volta che negli anni il mondo politico ci ha riservato le sue assurdità, ci siamo consolati raccontando a noi stessi e agli altri che l’Italia in realtà era «un laboratorio». Per carità, lo sarà senz’altro stato. Ma di questi tempi dà più l’impressione di essere un museo di modelli un po’ superati.
È difficile fare a meno di pensarlo quando si ascoltano le parole che salgono dal sistema dei partiti oggi e si prende nota di quelle che non si ascoltano. Prendere l’espressione «crescita economica», per esempio. Sarà banale, sterile. Ma alla fine vorrà pur dire qualcosa se alla fine dell’anno scorso il prodotto interno lordo italiano era del 12,4% sotto i livelli del 2007: ad eccezione della Grecia, un caso unico nell’Unione Europea. Anche al punto più basso della pandemia l’area euro in media era dell’11% sopra i livelli di quattordici anni prima ed erano in terreno positivo anche i Paesi più duramente colpiti da Covid come Spagna o Portogallo.
Ora, in una situazione del genere è improbabile che di crescita economica gli italiani non vogliano sentir parlare. A maggior ragione alla vigilia di un piano di investimenti pubblici europei e italiani senza precedenti nella storia della Repubblica. I ceramisti, gli artigiani, gli imprenditori e gli addetti della logistica dei grandi porti, i commercianti e gli autonomi che nei mesi scorsi hanno perso tutto, i circa sei milioni di giovani inattivi o ufficialmente disoccupati.
Queste persone saranno tutte interessate a capire in concreto su cosa si basa la ripresa e come le rimette in gioco. Vorranno discutere quali sono le implicazioni per loro della transizione energetica, della trasformazione digitale, di come dev’essere un welfare finalmente moderno per chi oggi è senza lavoro o cosa cambia e perché con la legge (in arrivo) per una maggiore concorrenza.
Ma chi parla di tutto questo con gli italiani? Sarebbe un lavoro dei partiti, se avessero un radicamento sociale ancora attivo. Spetterebbe a loro delineare un disegno palpabile di rinascita nelle associazioni, nelle città, nei distretti, come fecero i loro progenitori dopo la guerra. Invece duellano fra loro a colpi di tweet sulle piccole schermaglie di giornata, spesso su sfondo di posticce querelle ideologiche. O tacciono. Di crescita economica non parla nessuno, non la racconta nessuno. Come se fosse possibile delegare una trasformazione profonda della società italiana — indispensabile — a un gruppo di pur encomiabili figure istituzionali o tecniche.
Gran parte del ceto politico sta restando indietro su una società italiana ansiosa di rimettersi in marcia. Sembra che abbia smarrito il senso del dubbio di René Obermann: «Chiamatela pure paranoia, se volete — ha detto al Corriere di recente il presidente del colosso aeronautico Airbus —. Ma dentro ho questa paura costante di perdermi le tendenze decisive. Perché ho già visto questo film: il successo di ieri può nutrire i fallimenti di domani». Parole che dovrebbero risuonare anche per i partiti in Italia, tutti. Il tempo della pandemia macina rapidamente chiunque si accomodi sui successi di ieri o di oggi.
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