Le illusioni coltivate dalla Cina
Nella concezione dei dirigenti cinesi, insomma, il capitalismo che a loro piace è, e deve restare, solo una struttura produttiva, di fatto riducibile alla semplice proprietà privata dei mezzi di produzione e alla libera formazione dei prezzi sul mercato: l’una e l’altra peraltro sempre sotto stretto controllo politico-poliziesco, così come sotto il medesimo stretto controllo devono restare i padroni dei mezzi di produzione, gli operai e i consumatori. Al dunque il capitalismo per Pechino è una sorta di prigione con dentro delle macchine. Non già invece, come un certo Carlo Marx sosteneva a suo tempo, una formazione storico-sociale complessa che è fondata su un principio di libertà, sia pure inizialmente «astratta e formale» quanto si vuole, che però ha finito per improntare di sé tutte le relazioni tra gli uomini, dando vita a infinite contraddizioni destinate tuttavia a rivelarsi un formidabile motore di progresso storico.
È tra questa due idee di capitalismo, che poi sono due realtà — da un lato l’idea del capitalismo come un insieme di struttura e di sovrastruttura che ha dato origine alla realtà della democrazia liberale, e dall’altro l’idea di un capitalismo come semplice proprietà privata dei mezzi di produzione e sistema dei prezzi non controllati ma entrambi sotto la guida dello Stato-partito che se ne serve per i suoi scopi politici — è tra queste due realtà che alla lunga si sta producendo una inevitabile incompatibilità. All’uso politico-egemonico del capitalismo-prigione da parte della Cina non può che fare riscontro l’opposizione politica del fronte delle democrazie capitalistiche.
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